Miyajima

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giovedì 21 maggio 2015

Binario 1000


"Binario 1000", racconto breve premiato presso il Salone internazionale di Torino come quarto classificato nel "Concorso letterario nazionale 88.88" promosso dall'associazione culturale YOWRAS.

 
«Buongiorno» dissi con evidente imbarazzo alla donna che aveva appena aperto la porta ad uno sconosciuto.
Tutto era cominciato un anno prima, quando ero in attesa del treno nel paese in cui sono nato. La stazione era straordinariamente grande in confronto alla poca affluenza di passeggeri. Ben quattro binari correvano alternandosi a tre banchine in cemento. Poco più in là, altre rotaie finivano in un binario cieco, in cui da bambino avevo giocato immerso in mille avventure immaginarie. Binario mille lo chiamavamo, forse perché c’erano già quelli dall’uno al quattro e cinque ci sembrava riduttivo. Ricordavo benissimo i miei amici, l’erba che cresceva disordinata e meschina.
Era una domenica sera. Tornavo a Milano dopo aver fatto visita nel fine settimana ai miei genitori che abitavano ancora nella casa della mia infanzia. Ero solo nella stazione, avvolto nel prematuro buio dicembrino, punto dal freddo portato dal vento.
Ero in anticipo, come al solito. La curiosità e la nostalgia mi portarono vicino alla recinzione che limitava il nostro binario mille. Echi di giochi lontani stuzzicarono i miei sensi, riportando lucidi i ricordi di odori, colori e scherzi tra amici.
Era ancora lì, come lo ricordavo, schiavo dell’immobilismo che affligge da sempre il mio paese.
Di colpo vidi ombre muoversi in lontananza, dietro gli ultimi pilastri dell’edificio. Passi svelti, parole sussurrate.
Due, forse tre.
Risate, ragazzi probabilmente.
Insulti, fragore, urla.
Una richiesta di aiuto.
Il profumo della mia infanzia fu inghiottito in un istante da una palpitante preoccupazione.
Senza esitare cominciai a correre, con la valigia saldamente stretta nelle mani.
«Ehi voi!» Esclamai con il fiato corto.
Pochi altri passi e mi resi conto di quello che stava succedendo. Tre ragazzi stavano picchiando un senza tetto che aveva cercato riparo dal rigore della notte.
Vedendomi si fermarono come sbalorditi che qualcuno potesse davvero prendere un treno in transito in quella stazione. Lessi nei loro volti ancora imberbi la baldanza esaurirsi nel terrore di essere smascherati, probabilmente agli occhi dei genitori.
Uno di loro diresse insulti nella mia direzione e sferrò un calcio al viso del malcapitato a terra prima di correre via.
Feci letteralmente volare via la mia valigia e cominciai ad inseguire a perdifiato il trio. Pochi metri dopo mi ritrovai con le mani sulle ginocchia, troppo lontano da quei ragazzi che, spinti da qualcosa che non comprenderò mai, si erano accaniti in modo aberrante sul senza tetto.
Trovai le energie per correre indietro e sincerarmi delle condizioni dell’uomo.
Era a terra, ricurvo e intorpidito dal freddo. Il viso insanguinato e i cartoni che lo avrebbero dovuto riparare sparsi intorno a lui. Respirava a fatica.
«Tutto bene?» Mi sentii idiota nell’aver davvero pronunciato quelle parole.
Recuperai un minimo di lucidità e chiamai un’ambulanza. Poi, mi chinai sull’uomo.
«Stanno arrivando i soccorsi. Tieni duro. Riesci a sentirmi?»
Silenzio.
Mi vergogno ad ammetterlo, ma esitai diversi secondi prima di poggiare la mia mano sulla sua spalla.
Feci una lieve pressione e provai di nuovo ad interrogarlo.
Con una velocità che non avrei in nessun modo potuto preventivare, mi afferrò la mano.
Le sue dita sudice entrarono in contatto con le mie.
Lottai con me stesso, ma sconfissi il mio istinto di mollare la presa.
L’uomo, al contrario, strinse e sussurrò qualcosa.
Mi chinai, avvicinando il mio orecchio alla sua bocca.
“Beatrice”, riuscii a cogliere nel suo farfugliare. L’uomo, lasciò la presa e frugò in una tasca interna dalla sua giacca logora. Estrasse un piccolo ciondolo, simile ad una moneta bucata nel centro. Allungò la mano e fece scivolare il ninnolo nella mia, bisbigliando di nuovo lo stesso nome.
Poi fece cadere indietro la testa. Gli tenni la mano finché non arrivarono i soccorsi.
Persi il treno.
 
 
 
Rimasi sconvolto dalla notizia della morte del senza tetto. Dopo due giorni in terapia intensiva aveva smesso di lottare. Il suo già provato fisico non aveva retto ai colpi subiti.
Un agente di polizia a cui avevo lasciato i miei recapiti mi disse che il nome della vittima era Vladimiro Risi, ma tutti lo ricordavano come Didi. Non lo avevo mai visto prima, ma sembrava che in paese fosse conosciuto. Chiusi la telefonata rigirando il ciondolo tra le mani. Per qualche ragione, Didi aveva deciso di affidarmelo.
Trascorse un mese in cui fui particolarmente preso dal lavoro e mi lasciai travolgere dall’affannosa routine quotidiana. Finché non mi resi conto che non sarei stato degno di proseguire la mia vita se non avessi onorato la memoria di Didi, come ormai mi ero abituato a chiamarlo.
Feci delle indagini e scoprii che in passato era stato benestante, proprietario di una piccola azienda vinicola. Complice gli anni di crisi, gli affari avevano cominciato ad andare male e si era ritrovato in breve in mezzo ad una strada.
Non era stato sposato, né aveva stretti legami di parentela. Il tutto rese più difficile per me quello che sarebbe diventato uno scopo imprescindibile nella mia esistenza: rintracciare Beatrice.
 
Individuai un uomo che era stato suo dipendente. Mi raccontò che Didi era stato un uomo generoso, capace di dare una liquidazione premio ai suoi dipendenti quando era stato costretto a chiudere. Non seppe però darmi alcuna informazione sulla donna che stavo cercando. Mi comunicò tuttavia un paio di nomi di persone in qualche modo legate a Didi.
Impiegai due mesi per scoprire che portavano entrambi ad una pista cieca. Continuai allora a fare ricerche sulla società di Didi, scoprendo molti dettagli, ma nessuna pista concreta che conducesse ad una donna di nome Beatrice.
Cominciai a trascurare il mio lavoro e fui richiamato formalmente dal mio capo. Risposi che era un periodo difficile e che avrei preso dei giorni di ferie accumulati per ricaricarmi. Mentii senza provare alcun disagio.
 
Continuai a girovagare senza grandi risultati nei dintorni del mio paese. Le mie ferie si esaurirono troppo in fretta e tornai a Milano. Non facevo altro che pensare alla ricerca di Beatrice e, spesso, sognavo di notte il pestaggio di Didi al binario mille. Sei mesi dopo presi un’aspettativa al lavoro tra le minacce velate del mio capo e l’incredulità dei miei colleghi.
Feci delle indagini più intense. Entrai in possesso di un’enorme mole di dati sulla vita di Didi, grazie ad alcune amicizie che avevo nel mio paese. Cercai in ogni direzione.
Nel mio peregrinare feci visita alla banca dove aveva avuto il conto Didi. Con mia grossa sorpresa, riconobbi nel direttore della piccola filiale Samuele, un mio amico d’infanzia. Lo abbracciai con affetto e un attimo dopo ci ritrovammo a ricordare i meravigliosi momenti condivisi da bambini. Non tralasciammo, ovviamente, il mitico binario mille.
Fu in quell’istante che gli raccontai il motivo della mia visita. I visi sorridenti sfumarono in pochi istanti.
Chiesi aiuto al mio amico di vecchia data.
Non che potesse fare molto, mi disse, ma diede comunque un’occhiata alle movimentazioni del conto di Didi e della sua società. Stava forse violando qualche normativa sulla privacy, ma mi spiegò che aveva notato qualcosa di particolare, un numero cospicuo di versamenti a favore di una società di cui mi rivelò il nome, pregandomi di non fare parola a nessuno di quanto mi aveva comunicato.
Ci lasciammo con la promessa di rivederci presto.
 
Rintracciai la società e scoprii che si trattava di una cooperativa che operava a favore di bambini in difficoltà, per lo più orfani. Didi era un filantropo, conclusi. Valeva la pena approfondire la faccenda.
Salii su un treno verso Lecce, sede della cooperativa.
Alberi si alternavano a piccoli paesi arroccati sugli Appennini. Il cielo grigio, sferzato qua e là da dorati raggi di sole, era la cornice del turbinio dei miei pensieri disordinati. Mi chiesi chi fosse davvero quell’uomo che aveva concluso i suoi giorni celato dietro ad abiti logori e barba incolta.
Raggiunsi infine la porta della cooperativa. Suonai al campanello.
 
 
 
«Buongiorno» dissi con evidente imbarazzo alla donna che aveva appena aperto la porta ad uno sconosciuto. Era una suora di nome Benedetta.
Mi invitò ad entrare e le chiesi se conoscesse Didi o una donna di nome Beatrice. Ero pronto ad andarmene, temendo di essere di fronte all’ennesimo vicolo cieco, quando la sorella cominciò a parlare con voce tesa.
Mi disse che, tanti anni prima, era stata amica inseparabile di un bambino meraviglioso. Con il passare degli anni, l’amicizia era tramutata in sentimenti più profondi. Quel bambino era divenuto un ragazzo incantevole dai modi gentili ed eleganti. I suoi genitori erano però contrari a quel legame ed avevano proibito alla ragazza di incontrare il giovane. Lei aveva disubbidito più volte per vedere il suo Vladimiro, così si chiamava, finché era stata scoperta dai genitori e costretta a prendere i voti in convento.
Vladimiro le aveva promesso che l’avrebbe aspettata tutta la vita e che l’avrebbe pensata ogni giorno.
Suor Benedetta aveva trovato la vocazione e proseguito la sua vita monacale. Avevano continuato a sentirsi e Vladimiro le aveva inviato frequentemente donazioni per la sua missione con i bambini.
Disse poi che pochi anni prima Didi aveva inviato un grossa cifra in denaro per curare un bambino malato di leucemia. La suora sorrise dicendo che il bambino era ora sano e felice.
Da quel momento aveva ricevuto solo due comunicazioni scarne, l’ultima quasi due anni prima.
Concluse la storia dicendo che il suo nome prima di prendere i voti era Beatrice.
Ero sconvolto e non riuscii a trattenere una sottile lacrima che scivolò sul mio viso contratto.
Guardai Beatrice e le posi quel ciondolo da cui non mi ero mai separato.
Lei lo guardò, lo strinse tra le mani sbarrando gli occhi. Capì senza che io dicessi nulla.
Un attimo dopo ci ritrovammo abbracciati lasciando esplodere un pianto tanto disperato e gravoso quanto liberatorio.
La mia vita non sarebbe stata più la stessa.