Miyajima

Miyajima

lunedì 22 dicembre 2014

Song 松


Avrei voglia di abbracciarvi tutti ma non riesco proprio, può sembrare strano ma anch'io ho bisogno d’affetto quando è Natale.
È per questo motivo che  continuo a rimanere fermo qui da un po’ di tempo senza andarmi a trovare un altro lavoro.

Ho sentito dirmi di tutto nella mia vita, dalle più belle lodi alle più infamanti invettive. Addirittura alcune persone non mi hanno considerato nemmeno un essere vivente. Non ho parole.

In momenti come questi però riesco a dare il meglio di me. Sotto Natale ad esempio, a differenza degli altri, abbandono la mia famiglia per andarmene da un’altra parte. Strano vero? Tutti di solito tendono a stare insieme, programmando questi santi giorni insieme a persone che non vorrebbero nemmeno incontrare nel resto dell’anno. Al contrario io preferisco andarmene, risolvo il problema alla radice.

Nonostante ciò ribadisco: vorrei essere abbracciato o quanto meno accarezzato anch’io. Questa sofferenza non può proseguire.

Da qualche anno ho trovato un lavoro stabile e visti i tempi che mi dicono correre faccio buon viso a cattivo gioco. In particolare lavoro per il più grande centro commerciale della Città. Qui è un gran via vai di gente. Abituato come sono io al silenzio della montagna, da dove provengo, capite bene non è assolutamente il massimo. Per fortuna esiste quella santa legge che non permette di fumare in luoghi chiusi, ci mancava pure questo. Soffro un po’ l’aria rarefatta ma, dormendo qui nello stabile, riesco almeno la notte a ossigenarmi un poco.

Insomma con la crisi che gira, non posso lamentarmi. Certo starei meglio se solo  qualcuno provasse anche solo ad accarezzarmi. D’altra parte non è per tutti Natale?



24 Dicembre 2014 – Centro Commerciale Porta del Mare

Ciao? Come ti chiami?

Come, sta parlando con me?

Ciao, ti ho chiesto come ti chiami?

Cavolo, una vita ad aspettare questo momento e sul più bello mi mancano le parole

Ok, faccio da me le presentazioni. Io sono Elena e tu?

Silenzio assoluto da parte mia

Beh non importa… Sai per me oggi è la prima volta che vengo in questo posto. Mia madre mi ha detto che non dovrei parlare con gli estranei, ma con te non credo di sbagliare. È  un po’ che ti guardo così, addobbato a festa. 
Ti hanno conciato davvero male, sei molto buffo!

La risata della piccola Elena non mi scalfisce perché in fondo so che ha pienamente ragione. Uno come me, abituato alla campagna in questo posto così sistemato…

Quest’ anno per me vorrei tanto la bicicletta che ho chiesto a Babbo Natale, tu pensi che arriverà?

Intorno, una calca infernale sfila come se nulla fosse, come se io ed Elena non esistessimo. Pazzesco. Mi distraggo troppo, mi concentro per provare a rispondere in qualsiasi modo ma in questo momento mi sento più bloccato di altre volte. Forse l’emozione.

In verità più della bicicletta mi interessa che mio padre ritorni questa sera. Sai, lui lavora anche la Notte e sta lontano molti giorni. Mi ha promesso però che questa notte ci sarà!

Abbandono l’idea di rispondere, vorrei regalare qualcosa alla piccola Elena ma non ho nulla di valore con me.

Ora ti devo salutare Signor… beh, Signore ciao. Questa sera, quando papà sarà a casa gli regalerò questa! Poi magari te ne riporto un’altra, ma per ora è l’unico regalo che posso fare.

Mentre si avvicina vedo la sua piccola mano allungarsi e sfilarmi di dosso una di quelle palle rosse che mi ha messo addosso il principale. Dovrei arrabbiarmi ma faccio finta di non accorgermi e la lascio andare.

Grazie e a buon rendere!



Penso grazie a te Elena e spero che a tuo papà possa piacere il regalo.

Torno a guardarmi intorno e rifletto che in fondo gli esseri umani non sono poi tanto male. Nonostante tutto quello che in questo momento mi circonda.

Rifletto sul momento in cui Elena consegnerà la palla di natale che mi ha staccato al padre e posso immaginare che sarà davvero un bel momento. Bisogna solo aspettare.

Per me, tra un paio di ore, sarà tutto finito.

Come per tutti gli alberi non mi rimane che pensare alla prossima Primavera,  nel frattempo rimango qui, con le mie luminarie e i miei addobbi,  a sgobbare.

AUGURI DI BUON NATALE DA EMILIANO SCLAME

giovedì 4 dicembre 2014

Resto qui

Resto qui, nonostante ci siate Voi, davanti me, a farmi sentire ogni volta diverso.
Non mi importa nulla di quello che pensate, in fondo non trascorro le mie giornate dietro la televisione. Riflettendo bene nemmeno ce l’ho la televisione.

Il medium sono io così come anche il messaggio.

“Ecco, per Lei” 

Cinquanta centesimi volano dal palmo della mano di una giovane ragazza verso la custodia della mia chitarra dove sono affastellate altre monetine di diverso taglio. Contraccambio con un cenno di riconoscenza  impercettibile per tutti gli altri. Sono gli occhi della ragazza e solo loro il mio bersaglio. Centrato.

Trascorro le mie giornate tra la piazza centrale della Città e il Corso. Molti mi riconoscono anche se non tutti si ricordano bene da quanto tempo sia lì. Il fatto è che, come per molti avvenimenti della vita, sono apparso improvvisamente. Senza avvisare nessuno. Sorprendendo.




“Venite venite, questo è forte!“

Da lontano arrivano voci di giovani ragazzi baldanzosi per il solo fatto di essere qui in questo momento. Il loro “Sabato del villaggio”. Fingo di non osservarli ma non riesco a non riconoscermi in loro. Alla loro età. Chi l’avrebbe mai detto che da lì a qualche lustro le cose sarebbero andate così.

Il medium sono io così come anche il messaggio.

Forse tra di loro, dietro le loro camicie e i loro capi firmati si nasconde uno come me, un…non so nemmeno come definirmi: musicista, artista di strada, buffone, barbone…no meglio lasciar perdere.

“Esca!” 

Sento essere chiamato così, da uno di loro, senza nemmeno capire bene il perché.

“Ci fai il pezzo con la chitarra? Dai quello di John Lennon…”




Fingo di capire ed incomincio con il brano che avevo per la testa. Nulla di più lontano da John Lennon ma evidentemente non era il pezzo che interessava. Davanti a me i 5 ragazzi iniziano a riprendermi con i loro telefonini mentre ognuno mima una faccia o un gesto diverso. Niente di volgare ma inizio a chiedermi se la scimmia sia io oppure loro. Proseguo accennando alle note di “Starman” di David Bowie.  Mentre con la mia voce roca accompagno la mia chitarra uno di loro mi parla come se potessi rispondergli.

Accenno una smorfia di condivisione ma non vedo l’ora che se ne vadano.
 
Il medium sono io così come anche il messaggio.

Termino il mio brano e dinnanzi a me non resta più nessuno di quel piccolo branco. Solo una signora incrocia il mio sguardo mentre da solo riprendo con semplici arpeggi. Un passante allora coglie il mio sguardo, sembra essere interessato alla mia persona. Probabilmente passava di li per caso ma evidentemente ho saputo catturare la sua attenzione. Mi guarda come ad aspettare che continui con un nuovo brano. Nel suo volto riconosco il tipico sguardo di interesse e commiserazione, curiosità e pena che ormai, nel corso degli anni, ho saputo individuare molto bene.

Il medium sono io così come anche il messaggio.

Mi viene vicino e mi chiede se posso fargli un pezzo, uno qualsiasi, di Mina. Non si preoccupa del fatto di non avere una voce femminile avanti. Il che mi colpisce e decido, a differenza di ogni altra richiesta, di seguirla.

Inizio a pensare a mille soluzioni, da “Insieme”  fino ad “Amor mio”. Alla fine, dopo qualche istante mi decido:  “Un colpo al cuore”.

Parto intonando la prima strofa: “Se, un giorno ritornassi da me…”

Squilla il suo cellulare, il volto da radioso si comprime in una smorfia di rabbia e dolore. Lascia cadere due euro davanti a me e fugge via senza nemmeno ascoltare un secondo della canzone.



Mi fermo per un istante, da solo, e fisso la piazza davanti me. Mi guardo riflesso nelle vetrine del bar e penso al mio bottino guadagnato senza nemmeno aver suonato. Guardo la mia figura e le persone indifferenti intorno, pronte a correre dietro ai loro traguardi. Sorrido di gusto e ricomincio a cantare il brano interrotto.

“…da troppo tempo ormai, è il solito tran tran...”

Il medium sono io così come anche il messaggio.


mercoledì 19 novembre 2014

Il Circolo Trevi - Essere Tredici


Per non dare nell'occhio, Spatia era in anticipo su Federico di circa mezz'ora alla guida della sua Mercedes nera.

Tredici si rigirò le maniche della camicia fino al gomito. Spatia, che non aveva mai avuto particolari rapporti con il suo improvvisato compagno di viaggio, scoprì che quello che si diceva su di lui era vero. Sul braccio sinistro, pochi centimetri sotto il gomito, una cicatrice era uscita allo scoperto dopo che Tredici aveva tirato su le maniche.
Tredici era nato sotto il segno del crimine. Infatti, sin da piccolo era cresciuto sotto l’influenza di un padre dedito alla malavita. Nonostante questo, dai genitori gli fu insegnato un profondo rispetto per un codice d’onore, lontano dalla legge, ma pur sempre un codice di comportamento. Una delle prime leggi, se non la prima, era il rispetto della vita. 

Un uomo andava ucciso o sacrificato solo in casi estremi, quando non c’erano altre vie. Per questo la prima volta che Tredici uccise un uomo, all’età di diciannove anni, si procurò un taglio netto sul braccio, cosicché mai dimenticasse quell’avvenimento. Non solo, ogni volta che avrebbe ucciso di nuovo, avrebbe riaperto quella ferita a testimonianza di un atto che in qualche modo violava un codice morale superiore.  

Nessuno sapeva con esattezza quante volte Tredici avesse riaperto quella cicatrice, ma in molti l’avevano vista sanguinare almeno una volta.

Per Spatia, quella era la prima volta che vedeva con i propri occhi quella ferita di cui aveva sentito parlare. Pensò che probabilmente l’avrebbe vista sanguinare da lì a pochi giorni. 

Poi pensò di chiedere qualcosa in più al compagno di viaggio, ma si interruppe dopo aver inspirato l’aria per iniziare il discorso e lasciò cadere le sue intenzioni in un piccolo sbuffo d’aria dal naso.
Riprese a guardare la strada e soffocò le sue curiosità.
Avrebbero proseguito fino a Barrea per poi ricevere sul luogo nuove istruzioni su dove dirigersi e su come chiudere definitivamente il problema Lo Monaco.

Il conto alla rovescia proseguiva incessante e inesorabile.

mercoledì 29 ottobre 2014

Il Circolo Trevi - Intervista a Raffaele Ravelli



A tu per tu con uno dei protagonisti del libro.

Emiliano Sclame: Buongiorno Raffaele. È un piacere intervistarti quando mancano davvero pochi giorni all’uscita de “Il Circolo Trevi”, romanzo in cui sei un assoluto protagonista.

Raffaele Ravelli: Grazie. Anche per me è un’occasione piacevolissima.

ES: Cominciamo con le tue impressioni. Come è stato collaborare nel romanzo?

RR: È stata la nostra prima collaborazione ed il progetto mi è piaciuto sin da subito. Non voglio svelare nulla sul mio personaggio, ma devo dire che è un uomo in cui mi rispecchio, almeno in una buona parte. Un lavoratore a volte testardo, convinto delle proprie opinioni, pronto a non fermarsi alle apparenze.

ES: Un personaggio positivo comunque.

RR: Sì, senza dubbio. Arriva a compiere azioni difficili da difendere, però agisce sempre in nome di una morale profonda radicata in lui.

ES: Per te come è stato interpretarlo?

RR: Nel complesso è stato magnifico interpretare un tale personaggio. Se da un lato, come dicevo, mi rivedo in lui, dall’altro è un personaggio distante dalla mie corde. Quindi, in alcuni momenti, ho dovuto faticare veramente. È un personaggio introverso, che a volte preferisce la solitudine e che si apre poco con le persone che gli stanno intorno. Io sono tutto il contrario!

ES: Già, mi vengono in mente alcuni momenti in cui è solo, oppure in compagnia di Tiziano Lo Monaco, ed è alle prese con i suoi pensieri, i suoi timori e le scelte difficili che è chiamato ad effettuare.

RR: Vero. Soprattutto con Tiziano, come personaggio del libro, ho vissuto momenti difficili.

ES: Come è stato invece lavorare con lui?

RR: Non ho avuto problemi. È una persona molto attenta e, secondo me, il suo personaggio è veramente complesso e difficile da interpretare. Devo dire che ha fatto un lavoro straordinario.

ES: Avete recitato molto insieme. Ricordi qualche momento in particolare?

RR: Sicuramente l’ultima parte del libro è stata impegnativa. Siamo stati molto insieme e molte scene le abbiamo dovute ripetere perché hanno richiesto uno sforzo in più da parte nostra. Se vuoi una scena in particolare, ricordo il viaggio a Barrea e l’incidente in auto.

ES: Qual è stato lo stato d’animo durante l’incidente?

RR: Io ho avuto paura, ma non ho dovuto mascherarla. Per fortuna, anche nel libro il mio personaggio ha paura. Tiziano invece, ha mostrato grandi capacità in quel momento.

ES: Come ti sei trovato con gli altri personaggi? Con chi ti hai legato di più?

RR: Il clima è stato positivo in tutto il libro. Abbiamo lavorato sodo, anche perché per molti di noi era il primo thriller, ma c’è stata una buona intesa. Ho stretto un buon legame con Spatia, anche se, come personaggi, non siamo andati molto d’accordo!

ES: No, infatti. Permettimi di chiederti come ti sei trovato con l’autore, cioè il sottoscritto.

RR: Ovviamente non posso parlare male (ride ndr). Scherzi a parte, è stato veramente intenso ed emozionante, tant’è che ho accettato subito e di buon grado la proposta di nuove collaborazioni.

ES: Devo dire che, anche per me, è stato molto piacevole e proficuo lavorare con te. Caro Raffaele ti ringrazio per il tempo che mi hai concesso.

RR: Grazie a te ed un caro saluto a tutti i lettori.
 
ES: Questa è la prima intervista di un ciclo legato ai personaggi de “Il Circolo Trevi”. Nei prossimi giorni le impressioni degli altri protagonisti.

mercoledì 22 ottobre 2014

L'emozione dello scrivere

 
Ogni volta, davanti alle parole che si rincorrono in un libro, sono attraversato da mille domande sulla vita dell’Autore. Se ha davvero provato le esperienze che descrive, se conosce o ha conosciuto in vita sua un personaggio tale e quale a quello che descrive, se quel personaggio non è altro che se stesso.
La domanda successiva è: chissà cosa ha provato mentre scriveva quel libro.
Sono domande che non avranno mai una risposta e, forse, è meglio così.

Però, nello scrivere, ho trovato alcune risposte. Ho provato sulla mia pelle alcune esperienze che, seppur diverse da persona a persona, ritengo possano soddisfare alcune delle mie curiosità.
Vi voglio raccontare quello che provo quando scrivo, quando permetto a dei fogli bianchi di riempirsi dando vita a storie più o meno complicate.

 

Qualcuno dice che la scrittura è dare forma ad un’idea iniziale, un embrione che si evolve tra modifiche successive ed intuizioni improvvise. In altre parole nella testa dell’autore non c’è subito tutta la storia, ma solo una buona idea iniziale che prende vita man mano.
A me capita spesso di essere spettatore delle mie storie, come se i personaggi vivessero di vita propria prendendo per mano i miei pensieri fino a trascinarli in intrecci del tutto imprevedibili fino ad un attimo prima. È da molto tempo che ho in mente questa metafora: scrivere è come lanciare un sasso dalla cima di una montagna. Sai esattamente cosa hai in mano e quali saranno i primi centimetri che percorrerà, ma hai solo un’idea di massima del tragitto che percorrerà per giungere a valle.
Già, perché quel masso rotola via saltando su un terreno disconnesso, urtando rami ed altri ciottoli, scavando il terreno e facendosi largo tra piccoli arbusti e asperità varie.
E tu stai lì, in cima a quel monte a seguire con lo sguardo le folli evoluzioni di quel masso che ti stupisce ad ogni rotazione, ad ogni urto, ad ogni cambio di direzione.

Vorresti vedere tutta la discesa d’un sol fiato, senza soste. Ma non puoi che interromperti e lavorare giorno per giorno, scoprendo che ogni volta sei di fronte ad uno scenario nuovo, con molti elementi mutati senza che te ne accorgessi, come se ci fosse una forza misteriosa che si diverte a trasformare il paesaggio, un diavoletto dispettoso di cui, in fondo, sai di essere innamorato.

Non è facile capire quanto sia autore e quanto spettatore. A volte, vorresti scrivere senza pause per sapere come va a finire, come se lo stessi leggendo quel romanzo. E se il libro è un thriller, allora ti viene davvero voglia di sapere se l’assassino verrà catturato, se il protagonista rimarrà in vita, se l’indiziato numero uno all’inizio della storia risulterà davvero essere colpevole.

Scrivere ti cattura, ti rapisce e ti maltratta. Non fai che pensare a soluzioni plausibili, intrecci verosimili e storie che siano in grado di catturare il lettore. Uno sforzo continuo che ti costringe ad addormentarti ogni sera pensando a quale possa essere il passaggio successivo o il personaggio in grado di far rimanere a bocca aperta chi legge. Sorprendentemente, alcune volte, al mattino hai bene in testa la soluzione che cercavi.

Ma, come dicevo poco fa, altre volte sei una vittima maltrattata. Perché quella pagina è capace di rimanere bianca per giorni o settimane, capace di essere scritta e poi cancellata senza appelli. È in quei momenti che il masso che hai lanciato si ferma a causa di un ostacolo che sembra insormontabile.
Tu metti la mano sulla fronte per debellare il riverbero del sole e vedere meglio il pendio, per capire quale sia il problema che non fa più rotolare quel masso. Ma niente da fare, quello se ne sta lì, irriverente e fastidioso.
Per fortuna, alla fine il diavoletto ci mette mano e dà un colpetto alla pietra che, proprio quando meno te lo aspetti, ritorna a rotolare veloce, pronta a raccontarti come andrà a finire.


mercoledì 15 ottobre 2014

Flake Music


Sono davvero felice, incredibile. 

Continuo a prendere sul serio le cose eppure, nonostante ciò, ho davanti a me ogni volta un nuovo disegno.

Perché sono così soggetto agli umori che la musica che ascolto mi genera?

Sono sempre stato convinto che quello  che conta, per vivere davvero bene,  possa essere riassunto in un quieto mantra come: “Vivi e lascia vivere”.

Ah ah ah, davvero divertente. Non c’è niente di meno vero pur essendo, lo riconosco, un bel motto da rivendersi con gli altri. Una di quelle cose da sputare fuori mentre lo sguardo non riesce ad alzarsi dalle tette di chi si ha davanti.

Non è così. Non lo è per me e non lo è per nessuno.

Quello che conta è rompere le palle al prossimo sforzandosi magari di andare contro se stessi. Questa è la vera regola.

Perché un breve passaggio di chitarra, una di quelle con il “treble” alto mi fa ancora venire la pelle d’oca?

Leggo sui giornali, svogliato, storie insensate e una costante ricerca di accumunare un popolo. Magari ricordando gli spot pubblicitari degli anni ’80.
Ah ah ah, di quei discorsi in cui ci si ricorda l’albero di natale, con le candele, il coro…

I gruppi che suonano indie rock sanno di essere indie rock?



Quante cazzate lontano dagli sguardi di chi non riesce a guardarci negli occhi. 

Ho la soluzione però, scendo giù in piazza,  mi fermo al primo tavolino del bar davanti la tabaccheria e rovisto qua e la tra chi insieme a me fa da Sfondo a tutto il resto. Vedo giovani bambini rincorrere altri loro coetanei sotto gli occhi stanchi dei loro genitori. Una ragazza sulla quindicina si avvicina al nonno, fermo davanti la sua edicola, e chiede informazioni su non so bene cosa.  Il cameriere si avvicina e mi serve il mio caffè.

Ho sempre invidiato quelle persone che continuano a suonare in gruppi underground pur  non avendo l’età anagrafica per poterlo fare. 
Quelli che suonano il loro basso come fosse ogni volta la prima volta. 
Quelli che terminano la loro esibizione imprecando gratuitamente.

Il fatto è che penso sempre a te.

Guardo le persone intorno correre via verso la prima stazione possibile, così come le signore anziane ritornare dalla messa del Sabato sera. Ricerco in ognuna di loro un ritratto di quello che potresti diventare.

Mi chiedo quanto tempo mi separi da tutto ciò.

Mi chiedo dell’oblio.

Voglio essere dentro ad ogni nota della mia Vita, dentro ogni pausa. 

Pronto ad ascoltare ogni distorsione che la realtà mi proporrà.



martedì 5 agosto 2014

Istantanea

Continua il mio cuore a battere. 
E’ l’unica cosa che riesco ancora a sentire.

Prolungo le mura di questa città che raccontano ancora delle nostre gesta, dei miei passi lenti, dei tuoi sguardi. 
Delle mie vittorie dietro una performance da buffone dell’ultimo istante, delle urla a un inglese ubriaco, delle nostre risa.
Della luce riflessa dalle fronde dei platani nei tuoi occhi. 

Non ho imparato

Ho compreso molto, forse, di quanto accaduto. Nonostante ciò non riesco ad essere un'altra persona, non riesco a dimenticare quello che sono stato assieme a quello che ho amato. Mi sembra strano poter pensare di essere solo. Mi sembra strano anche il pensare di rimanere qui. Lontani.

Non ho imparato nulla

Ripeto il mio mantra in questa giornata di Agosto, perso sotto un sole che sembra aver perso fiducia in se stesso. Anche lui. Intorno una città che non sa più nemmeno essere deserta. Pazzesco, mi viene quasi da ridere. Fino a  ieri a lamentarsi di quanto potesse essere desolante rimanere da soli in città ed oggi invece sentirsi costretto a convivere con tutte queste persone. Un fiume in piena di uomini e donne intente a calcare le mie strade. Si le mie strade.

Non ho ancora imparato nulla



Continuo a tenere abbottonate le asole della mia camicia, fino all’ultima. La mia cravatta, le mie scarpe eleganti, pulite, assieme a questo mio sorriso sottile, fanno da cornice ad un uomo che qualche sprovveduto potrebbe pensare “sicuro di se”. Cammino e lentamente mi avvicino al negozio dove lavoravi, dove anch’io mi sentivo di casa. Ora un drugstore ha preso il suo posto. Dentro cinque uomini di paesi lontani sorridono davanti i loro cellulari. Scorro attentamente il bordo dell’entrata e riconosco ancora le macchie sul muro. Quelle che ero solito fissare mentre ti aspettavo o mentre fingevo di non fissarti.

Non ho ancora imparato nulla da te

Ho sempre pensato che l’Estate non sia assolutamente democratica. Come se poi la democrazia possa avere o essere un valore. Una stagione che tende a polarizzare il bene e il male, la compagnia o la solitudine. Bella certo per chi può viverla, pessima per chi costretto a guardarla da dentro l’automobile. Parcheggiata. 
Un’estate questa in cui sono sempre più lontano da quelle che credevo essere le mie certezze. 
Un’estate lontana dai sogni ma molto vicina alla realtà.
Una realtà che mi divide, definitivamente, da te.



“Scusi, Signore? Può farci una foto?”

“Come?”

“Può fare una foto a me e mio marito?”

“Certo… dove preferite?”

“Te l’avevo detto Laura di fare da soli, che diavolo però.”

“Non ti preoccupare…Va benissimo qui Signore, in questa direzione. Ecco, se riesce  verso il tramonto.”

“Perdonatemi ma forse è meglio dall’altra parte, verso il centro della Città.”

“Non si preoccupi, la conosciamo già. Ci riprenda con il tramonto alle spalle. Grazie infinite.”

Il rumore simulato di uno scatto fotografico rompe il silenzio del momento.

Rimango fermo mentre la coppia, salutandomi, si allontana abbracciata.

Non ho ancora imparato nulla. Davvero.

sabato 26 luglio 2014

Prospettive

Sono Laura Pellegrini, fondatrice e presidente della Pellegrini S.r.l., una società che offre servizi e consulenza a professionisti di diverso genere. 

Così mi presento in occasioni come quella di oggi. Un convegno che durerà fino a domani.

Lavoro in un contesto prettamente maschile e questo mi ha logorato per molto tempo.

Ho sempre pensato di dover andare avanti a testa alta, con gentilezza e determinazione, fregandomene delle accuse misogine che mi vengono rivolte. Per affermarmi, spesso devo combattere di più dei miei colleghi uomini e ogni mio errore è sempre foriero del pregiudizio sessuale.

Lo ammetto, a volte divento presuntuosa o pretenziosa perché voglio dimostrare di essere all’altezza. Poi mi pento e mi trovo sola con i miei silenzi.

Sono una che ce l’ha fatta, ma che ogni giorno deve affrontare una sfida con il mondo, per il solo fatto di essere donna.

Partecipo spesso a gare di appalti. Le prime volte è stato un incubo. Cercavo di presentarmi vestita per bene, per fare bella figura, magari con un tailleur.

“Hai visto com’è vestita? Pensa di vincere facendo vedere il culo!"

Sentivo i commenti. Morivo dentro. Ho cambiato tattica, pantalone lungo e largo.

“Sembra un uomo! Poveraccio chi se l’è presa!”

Sbagliata e fuori luogo. Sempre e per molto tempo. Poi ho capito che potevo ritagliare il mio spazio, trovare persone che mi apprezzassero infischiandomene dei commenti che avrei ricevuto per tutta la mia vita. È stata dura. Non è facile comportarsi con lucidità, quando anche qualche tuo dipendente pensa che sei un’incapace a prescindere. Qualcuno ha addirittura insinuato che sono al mio posto perché mi ci ha messo un uomo a cui mi sono concessa.

Ridicolo, già. Ma le notti insonni le ricordo bene. Come le crisi di nervi e le volte che ero sul punto di mollare tutto. Pianti ed umiliazioni.





Ora sono seduta all’aria aperta, in un minuscolo balcone di un albergo di provincia. Sono sola dopo un sabato trascorso al convegno di Federimp, un’associazione di imprese a cui ho aderito come presidente della mia società.

Ci sono poche opache stelle a farmi compagnia, a cullare i miei pensieri in attesa che il sonno arrivi a sfocare i ricordi di questa giornata.

Il primo intervento del pomeriggio è stato di un baldanzoso ragazzo con diversi anni meno di me. Non ricordo il nome, ma non ha fatto altro che vantarsi. Durante la cena l’ho sentito più volte definirsi “Spada”, circondato da qualche donna abbagliata dal suo modo di fare da esibizionista. Il denaro attrae sempre, accompagnato poi da una parlantina sciolta ed un Rolex al polso.

“Non vi dico neanche la fatica che faccio a gestire il mio team. Cinquanta persone che si rivolgono a me per ogni cosa, pure per allacciarsi le scarpe. Ma io ci sono sempre, per tutti. Sono un po’ il loro punto di riferimento. Ci sono pure cinquantenni che ancora non hanno capito come fare il lavoro. È lì che interviene Spada. Tesoro, hai un sorriso che toglie il fiato.”

Come al solito, sono rimasta appena defilata dal centro dell’attenzione. Ho scelto un tavolo con un paio di persone che conoscevo. Gli altri non li avevo mai visti. Abbiamo parlato del più e del meno, ma a prendere il sopravvento è stato l’avvocato. Un certo Giorgi.

Prima mi ha dato un suo biglietto da visita, quasi chiedendomi scusa. Poi mi ha raccontato una storiella appresa da qualcuno sul suo studio.

Alla fine è diventato un fiume in piena. Ha parlato un’ora su come la vita non gli appartiene più, di come la società stia andando in rovina, di come l’essere umano sia depauperato del proprio intimo significato.

“Sono stanco, mi capite? Vorrei cominciare ad essere me stesso, senza indossare maschere.” 

Gli antipodi. Un ragazzo esaltato ed un uomo di mezza età in cerca di se stesso. Eppure, sono entrambi prigionieri del loro stereotipo, della loro maschera. Forse ognuno di noi ne ha una.

Per fortuna, una non la vesto più da tempo.

Sento il telefono vibrare sul tavolino di vetro

È quasi mezzanotte.

Sblocco il telefono e chi mi ama  mi augura buonanotte.

Ho la mia vita.

Questo è quello che conta. Davvero.

mercoledì 16 luglio 2014

Un Venerdì sera

Ho una sola Verità nella mia vita. 
Credere esclusivamente in ciò che abbia come ultimo fine me stesso.

Cosa interessante è che tale obiettivo è lo stesso per la stragrande maggioranza delle persone che vivono su questo pianeta.

Il problema è che dobbiamo vestire sempre nuove identità, sentirci apprezzati dagli altri, vederci come i buoni che sanno distinguere il “giusto” dallo “sbagliato”, capire il “bene” dal “male”. Per questo molti tendono a celare, davanti agli altri, il primo obiettivo della propria vita. Se Stessi.

Purtroppo per Voi, che mentite tutti i giorni alla vostra coscienza, è assolutamente così che vanno le cose.

In un albergo del Centro

Sono 500 euro tesoro – Ascolto un accento dell’Est, cerco di riprendermi dal mio stordimento

Non fare finta di non sentirmi. Sono 500 euro, muoviti  “Dragoste”

Prendi pure dal mio portafoglio – Traggo le ultime energie per indicare l’unica soluzione possibile-

La persona con cui ho svolto una delle mie pratiche preferite si accorge del mio stato, mi guarda con diniego e tira fuori dal cilindro 5 banconote da 100. Niente male penso. Intorno a me una delle più lussuose suite del primo albergo di città.

Se le cose vanno fatte, vanno fatte bene.

Questo è il mio mantra, sempre. In ogni circostanza.

“Dragoste” vuoi una sigaretta?



Non rispondo mentre vedo Alexia aggirarsi tra le lenzuola per trovare il suo accendino. Steso sul materasso scorro lungo le pareti rappresentazioni di paesaggi ottocenteschi, le tende rigorosamente chiuse sul fantastico corso della città, più giù sul tavolino la bottiglia di vino non ancora vuotata.  Vicino, i miei pantaloni e quel che rimane di un frugale dessert di qualche ora prima. Niente di strano. Il mio mantra prevede che le cose vadano sempre fatte bene.

Devo andare

Se vuoi puoi rimanere

Non ci provare piccolo. Ho già chiamato il taxi che mi aspetta sotto nella hall. Ti saluto “Dragoste”

Sento la porta sbattere e rimango solo nella stanza.
Il soffitto, di un bianco opaco, ha come ornamento delle greche dallo stile andato. Pomposo. Mi perdo tra le luci del lampadario e comprendo come questo ennesimo venerdì  sera non abbia più granché da darmi.

Sono stranamente turbato dall’assenza di qualsiasi emozione, mi alzo, mi guardo intorno e cerco di ricompormi. Sono le due di notte, non è poi tanto tardi. Mi prendo tutto il tempo necessario.



In fondo mi sono meritato il giusto divertimento. 
Quanto necessario per affrontare  il convegno di domani in cui sarò uno dei relatori principali. Sarà una giornata dura. Riflettendoci , mentre mi accingo ad uscire dalla stanza, mi convinco di come questa sera me la sia  proprio meritata.
Più delle altre volte.

Nello scendere dalle scale del lussuoso Hotel vedo intorno solo persone giuste, oserei dire di un certo rango. Esco fuori dall’edificio chiedendo la mia auto al facchino. Mi accingo all’ingresso quando sento il suo motore arrivare, farsi più grande. Una melodia per me.
Mi riverso in strada allontanandomi dal centro. Intraprendo la via di casa e sui bordi trovo le “colleghe” di Alexia intente ad aggredire il mercato. Ognuna ruggente verso i passanti. È chiaro che qualcosa per loro deve essere andato storto. Se per la mia Alexia ci vogliono 500 euro, per una sveltina qui ce la si può cavare con prezzi davvero modici.
Evidentemente non hanno buoni manager.

Mi fermo davanti l’ennesimo semaforo e accanto a me il classico uomo di mezza età, dentro una scassata Punto, si avvicina al marciapiede. Parcheggia e scende. Inizia a guardarsi intorno, con fare rapace. 
Penso immediatamente di aver incontrato l’ennesimo pazzo. Invece, proprio mentre sta per scattare il verde,  vedo un'auto lasciare una giovane africana sul marciapiede. 
La ragazza finge di sorridere ma mente chiaramente, l’uomo della punto non ci pensa su due volte. 
La carica e riparte.

Fra di me penso, così non può funzionare. Così non va.

Tengo fede al mio credo, alla Verità di Spada. 

Le cose o si fanno bene o è meglio non farle.

mercoledì 9 luglio 2014

(DE)FIN(I)ZIONE DI AVVOCATO


Bisogna fare rete. È l’imperativo che il mio capo ha diffuso tra i suoi fedeli. Io sono tra questi. Conoscere, promuovere, lavorare. Più persone ci conoscono, più abbiamo possibilità di lavorare per loro. Non dobbiamo avere timore di far vedere che siamo bravi e disponibili. Siamo disposti a lavorare gratis, almeno per un po’, pur di fare rete.
Abbiamo a disposizione tonnellate di biglietti da visita, sito internet ed una squadra di avvocati sorridenti. Io seguo piccole e medie imprese. Per questo il mio capo ha detto che è fondamentale entrare in associazioni tra imprese, presidiare il territorio, avere visibilità. Siamo diventati partner di un’associazione di cui non ricordo il nome, forse per un processo di censura.
 
C’è un grosso fervore in questo momento nel mio studio. Il fatturato del semestre è aumentato in modo consistente. Chi gode di una fetta della torta esulta. Anche gli altri esultano, forse speranzosi di carriera.
 
 
È ora di pranzo e andiamo al solito ristorante all’angolo. Nel tragitto a piedi avverto la sensazione di essere un corpo, mentre la mente è altrove, stufa di indossare la maschera che mi rende riconoscibile nella società di cui faccio parte. I miei colleghi scherzano e ridono su una causa –vinta– appena conclusa. Non capisco cosa ci sia di divertente nell’aver condannato una persona ad un grosso risarcimento.
 
 
 
«Avete fatto caso? Hanno tagliato il tiglio che era lì» dico indicando un quadrato di terra nel cemento in cui rimane qualche radice come traccia dell’albero.
In un attimo ho tutti gli sguardi addosso. Mi guardano come se fossi un alieno, facendomi capire che a loro non è mai importato nulla di quello o di altri alberi.
«Tiglio? Ma se io non so distinguere nemmeno un pino da una palma!» Dice Masi, uno dei soci dello studio. Gli altri ridono e in un attimo tornano a parlare della causa.  
 
Sento un insopportabile disagio. Prendo il telefono dalla tasca ed esclamo goffamente «pronto?», ma dall’altra parte non c’è nessuno. Mi consente di rimanere un passo indietro rispetto ai miei colleghi, mentre spero che nessuno si sia accorto della mia finta. Gli altri entrano nel ristorante, non curanti della mia assenza. Mi sento stranamente vicino al tiglio che non c’è più.
 
 
Attendo un minuto per dare senso alla farsa, come se importasse a qualcuno, e poi mi decido a varcare la soglia. Il proprietario saluta il mio ingresso con «buongiorno avvocato!».
Ancora una volta, Avvocato. Potrei svenire da un momento all’altro, invece trovo posto nella tavolata.
In fondo, Masi è a capotavola. Vicino a lui, ci sono quelli che aspirano a fare carriera, quelli che ridono di più alle sue battute. A seguire fino ai due praticanti. A me hanno lasciato l’ultimo posto. Sembra di vedere le figure che spiegano ai bambini la distribuzione del potere nell’antico Egitto: il faraone, i sacerdoti e così via fino agli schiavi.
 
Sfoglio il menù distratto ed ascolto Masi che racconta del viaggio che sta programmando questa estate. Sento che spara cifre dei costi degli alberghi, collegando ciascun prezzo ad una parcella incassata. Il ragazzo di fronte a me, ventisei anni, ha gli occhi che brillano. Ride anche lui, pensando che stia nel posto giusto, dove è tutto oro quel che luccica.
 
Mangio un piatto di insalata insapore. Le parole dei miei colleghi avvocati o aspiranti tali provengono da un mondo lontano e si perdono in echi sbiaditi senza attecchire nei miei pensieri.
 
«Giorgi?»
Quella parola cattura la mia attenzione. «Giorgi? Ma ci sei?»
Mi giro e vedo Masi che parla nella mia direzione. «Non starai mica ancora pensando al pino qui fuori vero?»
Risate. «Senti, scherzi a parte, ho saputo che sabato vai all’incontro di Federimp.»
Già, Federimp è l’associazione di cui siamo diventati soci. Sabato e domenica è previsto un convegno importante. Lo studio ha inviato me come rappresentante.
Annuisco. Nella testa torna prepotente il nervosismo. Devo sacrificare un fine settimana –non retribuito– per stare dietro a questo lavoro –e ufficio– che odio ogni giorno di più.
«Mi raccomando, è una grossa opportunità.» Alle parole di Masi gli altri annuiscono percependo l’importanza della cosa.
Quello che so io è che sacrificherò un fine settimana della mia vita che nessuno mi ridarà indietro.
 
Sorrido. L’automatismo fa muovere la maschera che porto in viso. Un conato sfiora i miei pensieri mentre un collega paga il conto a Masi che ricambia con una pacca sulla spalla.
 
Ci prepariamo a percorrere il tragitto al contrario. Il vuoto lasciato dal tiglio è ancora lì. Sono ancora in fondo alla coda, Masi ancora in testa.
Sono pronto a chiarire che sono un uomo, non un avvocato, che sabato non andrò a quel convegno e che lavorerò solo in modo sostenibile nel rispetto della mia e dell’altrui persona. Non mi interessa della reazione degli altri. Io sono io, a prescindere. Non soddisferò le esigenze di persone all’infuori di me e dei miei cari.
 
Prendo fiato.
 
Dling! L’ascensore si apre al piano. Il sorriso torna sul mio viso senza che lo voglia davvero. Mi siedo al mio posto, dietro alla scrivania piena di carte.
 
Avvocato Giorgi.