Miyajima

Miyajima

giovedì 26 marzo 2015

And you may find yourself



Questa non è la mia bella casa e questa non è la mia bella moglie.
Ho aperto gli occhi nel buio di una mattina di cui non mi importa nulla. Ho il respiro affannato e sono sudato. Le coperte sono spostate sul lato e vedo il mio petto salire e scendere vistosamente dietro il riflesso di una flebile luce che entra dalle persiane.
Ombre che si fondono con i miei pensieri. Volto il capo e vedo una donna dormire rannicchiata. Il suo respiro è regolare.
Ho ancora in testa sfumature degli incubi inquietanti che mi hanno perseguitato nella notte. Non saprei dire cosa ho sognato, ma la sensazione di ansia è ancora dentro di me.  Provo a respirare con calma, ma ci metto un istante a ricordare che i miei deliri notturni sono niente in confronto alla dura realtà.

 



Come sono arrivato a tutto questo?
I miei occhi si abituano alla penombra e comincio a mettere a fuoco i dettagli di una stanza che mi urla contro. Vivo qui da un anno circa, da quando mi sono separato da mia moglie. Una piccola casa che detesto, che non sento mia, che odio con tutto me stesso.

Tradimento, licenziamento, separazione, affidamento. Una tetralogia che mi ha cambiato in modo drastico, senza che me ne rendessi conto davvero. Il mio respiro si fa regolare, solo perché l’inquietudine ha lasciato il posto alla rassegnazione che mi accompagna di giorno.
Di nuovo triste, dopo che i soldi sono finiti.

Continuo a punzecchiare i miei sensi di colpa, schiavo delle scelte irragionevoli che ho fatto. Sono triste, forse depresso, forse senza speranza. Chi può dirlo? Eppure ho avuto il mio eden per un po’. Perché ho lasciato che le cose mi scivolassero di mano?
Non ho risposte ovvio, e continuo a ripetermi che è inutile piangere sul latte versato. È inutile, davvero. Eppure il mio cervello non riesce a fuggire, prigioniero della mia debolezza, come è sempre stato.

Stordito, sopraffatto, disarmato, riprendo sonno.
Il suono della sveglia mi desta. Percepisco subito qualcosa di diverso. Vedo la donna accanto a me balzare in piedi. Spegne il suo cellulare. La sveglia sul mio comodino mi dice che è presto, che la mia sveglia suonerà tra quaranta minuti. Confuso cerco di capire cosa stia succedendo mentre sparisce fuori dalla camera. Pochi minuti dopo torna.
- Devo andare, grazie per la serata di ieri, ma è meglio se non ci vediamo più

- Sì, va bene
Fatico a mettere a fuoco la situazione. Ricordo appena il suo nome.
- Davvero, mi dispiace, ma è meglio così per tutti e due.

Riesco appena a formulare un pensiero di senso compiuto che sento la porta di casa chiudersi per lasciare di nuovo posto al silenzio.
Come sono arrivato a tutto questo?

Non ho nemmeno la capacità di reagire. So già che non riprenderò sonno e ogni tentativo sarebbe inutile. Penso alla mia vita, a come era anni fa. È cambiata, tanto, e mi chiedo se anche io sia cambiato. Il domino di eventi che mi ha travolto poteva scatenarsi anche anni prima. Rifletto e, forse per la prima volta in vita mia, capisco che non è stata sfortuna, che la quaterna maledetta tradimento, licenziamento, separazione, affidamento sarebbe potuta accadere anche uno, due o chissà quanti anni prima.
È tutto uguale a come è sempre stato

Se questa è la conclusione, allora è inutile che mi sforzi di cambiare le cose, penso. È inutile che mi illuda di poter essere un uomo migliore. Ero, sono e sarò sempre un uomo…
 


Mi rifiuto di pensare realmente le parole che hanno sfiorato la mia mente.
E allora perché soffro? Perché mi sento come un dannato? Perché vorrei reagire e sovvertire gli ordini?

Domande interrotte dalla sveglia che finalmente suona. Rimando tutti i miei dubbi filosofici alla notte successiva, come al solito.

David Byrne rimane lì con tutte le sue domande, mentre mi convinco che tutti hanno diritto a credere che esiste una seconda possibilità.

mercoledì 11 marzo 2015

Borgo


Sensazioni: nebbia fitta, silenzio, umidità.

Odori: legna che arde

Rumori: tacco che cozza sulla dura pietra

Quadro: “Viandante sul mare di nebbia” (Der Wanderer über dem Nebelmeer), olio su tela di Caspar David Friedrich, 1818.




Musica:  “October” - Evanescence



Sono vecchia. La salita che da casa mia porta al piccolo orto che curo con amore da quasi sessant’anni è sempre più lunga e faticosa. I primi freddi cominciano ad arrivare ed il mio camino ha da pochi giorni ripreso a sbuffare fumo dal comignolo, spargendo per la mia casa un odore fin troppo familiare che nessun riscaldamento potrà mai sostituire.
Questa mattina c’è un po’ di nebbia. Non ho bisogno di vedere per trovare il mio cammino, semplice, ripetitivo, rassicurante. Senza contare che la mia vista non è più quella di una volta.
Il cigolio del piccolo cancello che mi separa dal fazzoletto di terra si disperde nel silenzio.
Nessuno ascolterà i miei passi, il rumore della mia fatica, il canto della terra che cresce.
Ormai vivo sola in questo borgo dimenticato da tutti, persino da Dio. L’ultimo parroco se ne è andato dieci anni fa e non è mai stato sostituito. La chiesa in pietra in cui pregavo da bambina è solo un soprammobile in attesa della visita periodica di un incaricato che la pulisce.
Claretta, l’amica di una vita, se ne è andata un paio di anni fa, lasciandomi sola a vivere in questo borgo che assomiglia sempre più ad un presepe.

Mi chino a raccogliere un cavolfiore, due carote. Strappo via qualche foglia, pulisco le piantine che tra poco affronteranno l’inverno. Sono gesti che ripeto da anni, che compio automaticamente, che coccolano la mia routine quotidiana.

Da bambina eravamo in molti da queste parti. Una comunità che tirava avanti con semplicità. Eppure, il nostro piccolo mondo era pieno di tutto quello che ci serviva. Mi viene in mente la mia maestra Caterina e la bottega di Umberto.

A poco a poco se ne sono andati tutti, compresi Luca e Francesca, i miei due figli. Vivono in città e vorrebbero che io mi trasferissi da loro. Dicono che qui sono sola, che fa freddo, che non c’è un medico, che, che, che. Capisco la loro premura motivata da un enorme affetto.
Ci riprovano di tanto in tanto, ma dentro di loro, forse, sanno che non lascerò la mia terra, la mia casa, la mia vita. È qui che so come vivere, è qui che so come morire.

Non resisterei un minuto lontano dalle mie cose. È che qui che ho conosciuto mio marito e che ho costruito il futuro dei miei figli. Sono una donna semplice con un viso solcato da rughe in grado di raccontare storie dimenticate da tutti. Forse non servo a molto, sono solo un baluardo di un mondo che non c’è più. Un ultimo guardiano ignorato dall’umanità. Ma non sarò mai un peso per nessuno.

Willy, il fedele cane che mai mi abbandona, mi corre incontro dopo una corsa. Ho le mani sporche di terra, ma lui non ci fa caso e mi porge la testa per farsi carezzare.
È un bravo cane.

Alzo lo sguardo verso il cielo, la nebbia si è diradata e ha lasciato spazio ad un sole magnifico. Il tempo di una passeggiata verso la madonnina e poi a casa per preparare il pranzo.

È la mia vita.

- Andiamo Willy!