Miyajima

Miyajima

giovedì 23 aprile 2015

Temporale


Sono rimasta chiusa fuori casa proprio mentre impazzava un temporale. Ho corso a piedi mentre nubi nere cariche di pioggia minacciavano il cielo fin dall’orizzonte. Tuoni e lampi che si alternavano, due facce della stessa medaglia pronti a gareggiare nel cielo e ad ingannare i nostri sensi.

Ho corso, ma è stato soltanto davanti alla porta di casa che mi sono resa conto che non avevo le chiavi. Ho frugato nelle tasche. Poi nella borsa. Dovevano essere lì! Per forza! Macché…
Mi sono guardata intorno, in cerca di non so cosa. Andare dai miei, chiedere aiuto, aspettare il ritorno a casa di Alessandro. Avevo diverse possibilità. Mi fermai a riflettere nel momento in cui una piccola goccia d’acqua rimbalzò sul mio naso zampillando nell’aria improvvisamente agitata ed elettrica.
Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove.



Invece mi fermai lì a guardare. Non so per quale ragione rimasi ipnotizzata dalle cime degli alberi scosse appena dal vento, dalle nubi che correvano sempre più veloci. Gocce che cadevano pesanti e violente, fitte così tanto da impedirmi di vedere lontano. Il paesaggio era cambiato in modo repentino e drastico. Anche i soliti rumori erano spariti sovrastati da un martellante battere su ogni superficie esposta alla furia delle intemperie.

Mi ritrovai bagnata, anzi, inzuppata dalla testa ai piedi. I vestiti si erano attaccati al mio corpo e i capelli, pesanti, si erano uniti in grandi ciocche gocciolanti.

Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove.
Ormai sarebbe stato superfluo e irragionevole cercare un luogo protetto. Ero finita nell’apice della furia della pioggia, non temevo più nulla. L’intensità delle precipitazioni rimase elevata per un po’, con tuoni e lampi sempre più vicini l’un l’altro, fusi in un abbraccio che mi fece sentire piccola al confronto con la potenza della natura. Cominciai a sentire freddo e fui percorsa da brividi lungo tutto il corpo. La pelle d’oca prese possesso delle mie braccia.
Eppure, senza un perché, cominciai a ridere. Alzai le braccia al cielo senza riuscire a fermare le risate che mi fecero aprire il viso in un sorriso esteso e libero. Le gocce rimbalzavano sui miei occhi chiusi, mentre tenevo il volto ricolto l’alto, grata di essere viva, felice di poter ridere senza un vero motivo.

- Ha bisogno di aiuto? Le serve un ombrello?

Un signore gentile che si preoccupò di me.

- No! La ringrazio!

Quasi gli scoppiai a ridere in faccia e non comprese affatto come le mie emozioni potessero sposarsi con il clima avverso che imperversava in quel momento.

La pioggia calò di intensità mentre io continuavo ad esibirmi in lente piroette sempre con lo sguardo rivolto verso un futuro che sarebbe arrivato, che avrebbe cambiato il presente, in cui tutto quello che è adesso sarebbe stato solo un ricordo, affievolendo il piacevole ed edulcorando lo sgradevole.

Tutto sarebbe passato, ovvio, ma avevo deciso di non fermarmi alle apparenze e di cogliere quanto c’è di bello in un temporale, di vivere intensamente quel momento, di sentire l’acqua dentro di me.

Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove.






Quando l’ultima goccia solcò solitaria l’aria umida io ero ancora lì, intrisa di pioggia, raffreddata, pronta a cogliere un riflesso di sole che si faceva largo con fatica tra le nuvole caotiche.

Ed ancora senza chiavi.

Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove, invece scoppiai a ridere un’altra volta.

martedì 7 aprile 2015

Picchio Bar


Fermo ogni dialogo subito sul nascere, non mi importa di essere sgarbato.

Trascorro il mio tempo a lavorare, ad ascoltare, ad immaginare le cose.

Immaginarle come dovrebbero essere.

Sono in un continuo stato di trance.  Mi sveglio, mi vesto, vengo qui al lavoro e penso che in fondo sia come salire su un'auto e mettere il cambio automatico. Rispondo il più delle volte, alle persone che continuamente mi chiedono ordinazioni, senza nemmeno ascoltare. 

Procedo dritto come il treno sul suo binario. Un treno di cui non conosco la destinazione.

           - Un caffè per favore.

Continua ogni momento di queste mie giornate ad essere infinito


    - Un cappuccino poco schiumato e un cornetto quando puoi.
   Per me una spremuta per favore.

   Andrea ci pensi tu? Abbiamo un cappuccino poco schiumato, una         spremuta e il caffè del signore è macchiato.



Annuisco. Guardo basso e non rivolgo parola, nemmeno a me stesso. Vedo fuori la tiepida luce del mattino pronta a riflettersi sulle ampie vetrate di questo luogo. Davanti a me la macchina del caffè che conosco meglio del lavandino di casa mia.
Mi ci tuffo dentro ogni volta come se dovessi detergermi il volto. Prendo le tazze una ad una con una perizia certosina. 
Non ne avverto quasi più il peso e la consistenza. 

Penso che se qualcuno un giorno dovesse chiedermi di cosa sono composte queste tazzine non saprei rispondere. Certo porcellana, vetro… toccare un oggetto tutti i giorni della tua vita ti porta ad essere più attento ad assegnare significati.

   Andrea quando hai finito per favore passa la scopa qui                 davanti la cassa, la signora di prima non ha avuto                     nemmeno la cortesia di chiedere scusa…

   Subito.



Riesco a parlare e questo ogni volta mi sorprende. 
Vedo fuori e dentro di me, vedo dentro gli occhi della gente. 
Riconosco quello che provano, quello che pensano. 
Quello che immaginano che io sia.
Si intervallano da ormai anni, ogni giorno, miriadi di storie di uomini e donne. 
Storie che pesano sui loro volti, li segnano. Davanti ai miei occhi è inutile provare a nascondere ciò che si prova, riconosco ogni emozione dell’avventore. In ognuna di quelle facce riconosco ciò che le stesse cercano di celare. 

Abbandono, stanchezza, dolore, frustrazione, paura, superbia, gioia.
Anche le cose più belle vengono sempre celate dietro un cortese “quando puoi”, dietro l’ennesimo “per favore”, attraverso una mal celata tranquillità che nasconde la frenesia del momento. Vedo le passioni del momento dietro ogni richiesta. Ascolto quello che le labbra serrate non riescono ad arginare. Ogni volta, dietro a queste persone, inizio a pensare. Batto il caffè all’interno del suo contenitore, lo stringo forte nell’apice della macchina davanti a me ed immagino l’acqua bollente inoltrarsi lungo le serpentine che concludono il loro percorso nel caffè che ho appena tamponato.

In ognuno di questi percorsi vedo la vita di chi ho davanti. Vedo lo sguardo di una donna fermo davanti a sé. Fissa i chicchi di caffè e dentro ognuno di essi sembra perdersi. 
Mi volto, le porgo il caffè che mi aveva chiesto e senza battere ciglio mi chiede se poco prima era passato un uomo di alta statura, con i capelli bianchi e una giacca blu.
Rispondo di non ricordare. La verità. Sono sicuro che si sia inventata il tutto per provare a vedere cosa si prova ad essere alla ricerca di qualcuno.

Passo avanti, il mio turno sta per finire. 
Raccolgo gli ultimi spiccioli della mancia, mi tolgo la camicia da lavoro e saluto i colleghi che chiudono il turno. La giornata è  quasi finita.

Esco e un tramonto armonioso, rimbalzando dietro la porta a vetri, disegna il mio volto.

   Scusa hai da accendere?

   No, mi spiace. Ho smesso.