Miyajima

Miyajima

giovedì 10 dicembre 2015

Quello che conta


Avere voglia di vivere nuove possibilità, questo è quello che conta e a cui voglio tendere. Vorrei lontane le voci di chi non sa far altro che parlare degli altri, del prossimo, del perché delle cose, delle Verità. Le loro. 

Voci lente e ricorsive come il volo della mosca che si posa sul mio ginocchio. Fastidiose come il suo ronzio.

Tendo al solito a ricredermi quando, perso nei miei pensieri,  mi stupisco di come anche il mio alimentari abbia una sua dignità intrinseca. Un ordine non solo commerciale ma quasi aureo, di pensiero. 

Gli oggetti posizionati li, uno dietro all'altro. Tutti in fila per un solo obiettivo, il loro acquisto.
Sono li per avvicinarmi al fantastico banco dei formaggi e incrocio qua e là lo sguardo sui vari prodotti caseari e insaccati.

Improvvisamente mi ricordo che è in giornate come oggi che mi rompo le palle del prossimo. Si, proprio in  giornate come oggi. Che c’è di male? Domani mi passa lo so e vi prego, non mi ricoprite dei soliti qualunquismi;  anch’io ho studiato e fatto la cresima.



Riesco a immaginare che poi a qualcuno la cosa possa anche interessare. Mi illudo ogni volta.

Il punto è che non ce la faccio più a leggere di persone che scrivono di altri, in modo criptico. 

Leggo cose del tipo: “…se tutti credessero quanto tengo te, anima mia persa dietro le ali di un altro angelo malato”.
Oppure ancora: “…Ricordo quando da piccolo il mio povero cucciolo si riposava…ciao piccolo cucciolo”.

Beh è proprio questo che intendo, non me ne frega nulla ed è lontano da queste persone che voglio stare.

Di come abbiano ricevuto fregature dal loro miglior amico o come la loro donna sia ora diventata l’ultima delle cortigiane. 

Non frega niente a nessuno in verità, tanto vale esser chiari quando si scrive.

Quello che conta in fondo sono le emozioni,  in cui tutti possono riconoscersi, e non le scontate macchiette dei solisti del pathos. 


mercoledì 28 ottobre 2015

28 Ottobre


Credere nei miracoli fino a farli accadere, questo è ciò che è avvenuto.

Niente di più semplice dello straordinario.

La notte più lunga, quella in cui anche gli alberi hanno iniziato a gridare, è passata.

Ho posato il mio bagaglio da una parte, con tutta la mia vita dentro, ed ho preso in braccio una nuova luce.

Penso a quello che vuol dire essere legato, fino all’ultimo respiro, ad un’altra persona.

Penso a quello che sono stato per lungo tempo, mentre da i miei occhi scompaiono i sabati al bar o al cinema.

Cammino velocemente in tondo per vedere se riesco a riprendermi da tutto questo.

Mi affaccio alla finestra e vedo una luna meno sola da oggi.

Da qualche parte, li nella strada, c’è già gente ad aspettare perché ora tutto è nuovo. Tutto è chiaro.

La mia schiena inizia ad essere riempita da nuovi brividi, sconosciuti prima di oggi.

Vedo davanti a me il sorriso di chi è in grado di fermare il tempo.

Ascolto le sue grida riempire di gioia i miei polmoni ed il mio cuore.

Questo 28 Ottobre finisce mentre incomincia la Vita.

mercoledì 21 ottobre 2015

Punto Zero


Sono al punto zero, la mia partenza.

Davanti a me scale, molte scale; forse mi piacerebbe rimanere qui più a lungo, ma gli ultimi eventi, i litigi, i confronti, gli scontri, mi convincono ad andare.

- Vai, non ti rimane molto tempo

 Salgo un primo gradino, pendo coraggio a proseguo fiducioso.
Sono al chiuso e il senso di claustrofobia aumenta lentamente. Pareti lisce e strette corrono ai miei fianchi. Continuo a salire e, sorprendentemente, quella voce riesce a raggiungermi ancora.

- Sali, prosegui e non voltarti

Gli spazi si allargano, si stringono, si deformano. La forza di gravità sembra non aver più effetto su di me. Altre scale si snodano in un mondo che non riesco più a comprendere. Mi convinco che sto sognando e che sono finito in un quadro di Escher.

 - No, sei sveglio

 Mi legge nel pensiero?
 
- No, sei scontato. Ascoltami e seguimi in questo cammino

Avanti, avanti tutta.
Stanco, disorientato, ma convinto. Forse ho già mille e più gradini alle spalle, ma non importa. So di potercela fare. Anche il tempo sfugge alla mia mente. Non ho percezione del suo scorrere e non saprei dire quanto tempo sia trascorso.

 - Non importa

 



 
 

Una finestra, finalmente. Prendo aria e proseguo. Sembra che sia finalmente arrivato da qualche parte. Una porta lucida mi separa dal traguardo che inseguo fiero.
La apro.
È uno spazio familiare, almeno credo, ma non riesco a coglierne dettagli rivelatori. Insisto e poso gli occhi intorno a me. Incredibile! Sono al punto zero, la mia partenza!
 
- No, non è incredibile

 Ma mi sono arrampicato su migliaia di gradini!

 - Riesci a vedere le cose da qui?

 Sì, con una prospettiva diversa. Riesco a ricollocare ogni elemento nelle mia mente.

 -Capisci ora?

No, sì, non so.

 


 

 

- Guarda tutto da qui per un po’

 Spero di farcela

 - Ce la farai

Capisco le illusioni prospettiche del mio punto di vista di prima. Mi chiedo se ora ce ne sono altre.
Intorno a me altre scale. Dove portano?

 - Tutte qui. Quando le avrai percorse, se non tutte molte, sarai pronto a tornare nel mondo

Sono molte scale.
Sono pronto.
Non ho paura né pregiudizi.

Via.

domenica 11 ottobre 2015

Correre


Bisogna correre per poter raggiungere qualsiasi cosa, questo è quello che ho imparato dalla strada.


Correre con una direzione è quello che invece ho imparato dalla vita.


Lo so a cosa pensate, il vecchio adagio non mente mai:  Chi va piano va…


Allo stesso modo si affastellano, sulle labbra di chi non ha mai avuto bisogno di sudare, esclamazioni in cui si raccomanda di rallentare, oppure di prendere il proprio tempo quando si devono affrontare scelte importanti.


Tutto vero certo, vero però per tutte quelle persone che hanno la possibilità di poter riflettere, di poter pensare. Persone  che possono scegliere se correre o rallentare, tanto in ambedue i casi sarebbero vincitori.


Faccio parte di quell’insieme di persone che solitamente non si vedono molto in giro, intente ad inseguire il proprio scopo più che a parlare di quanto li circonda.


Ho imparato che ogni mattina è quella giusta e per renderla tale bisogna corrergli dietro, prima che gli altri se ne accorgano.


Così giorno dopo giorno penso a quante volte avrei voluto non aver paura. 


A quante volte avrei voluto avere due gambe e due polmoni di riserva.


Si perché la paura spezza il fiato e non c’è nulla da vergognarsi.


Mi ripeto che l’importante è raggiungere, prima o poi, l’obiettivo.


Bisogna rincorrerlo facendo scorrere dietro le spalle tutte le inquietudini e i cattivi pensieri.


Così ascolto il mio ritmo, battito dopo battito.


Non c’è uno di questi istanti che ritorni ma poco conta, ora conta solo accelerare.


Fino alla fine.




martedì 6 ottobre 2015

Questa notte


Butto giù parole a caso, come se poi l’ordine in questa vita possa aiutare.

Guardo e ascolto il vetro delle finestre vibrare al suono della tramontana. Ogni volta che posso.

Potrebbe trattarsi di una mattina qualsiasi, di un qualsiasi anno, di un qualsiasi giorno.

Quello che ascolto è solo il peso del Tempo che bussa sul mio stomaco.

Penso che in fondo le cose andranno meglio. Penso alla mia Storia.

Non le immagini emotive della  tv e neppure quelle dei film a lieto fine.

No, semplicemente vorrei poter avere ancora la forza di sognare.

Incomincio a prendere sul serio le cose, così come queste parole.

Solo ora, sento di capire che non c’è niente di strano.

Libera è ora la mia mente perché libera da ogni paura.

Niente di più, come nei migliori finali. Come questa notte.


domenica 13 settembre 2015

Tre Giorni

Ricominciare qualcosa, dopo aver vissuto profondamente una precedente esperienza non è mai facile. 
Non lo è  soprattutto quando intorno non c’è alcun reale motivo per farlo.

Da una parte immagino che le cose potrebbero andare peggio. Sarebbero potute andare peggio. Si, è così. Per questo credo di essere finalmente salva, lontana da ogni inutile distrazione. 

Si, è certamente così.

Tempo fa avevo sentito della suddivisione dell’Estate in tre fasi: una di avvio, una di consolidamento e poi gli “ultimi tre giorni”. E’ in quest’ultimo lasso temporale estivo che sistematicamente do il meglio di me, da sempre. 
E’ per questo che adesso trovo molta difficoltà nell'immaginare un nuovo momento, credere che ancora una volta possa essere finito tutto. 
Potrei avere degli ultimi tre giorni ancora una volta ma non posso aspettare un altro anno.

Vedete è proprio questo fresco che accarezza il mio volto, rivolto verso la finestra della mia camera, ad essere la spia di un primo malessere. Com'è possibile infatti che abbia già la nostalgia di quella piacevole sensazione di umido sulla pelle? Non è possibile, sono sicuramente pazza. E’ chiaro. 
Eppure deve esserci qualcosa di più, lo sento.



Ciao Elena, che fai questa sera?

Ciao…beh credo di uscire certo ma...nulla di particolare. 

Domani vorrei alzarmi presto per vivere un po’ di mare al mattino. Domenica torno a casa e non sono ancora riuscita a farmi una giornata di mare come vorrei.

Considero questa risposta come un rifiuto? Mi stai scaricando vero?

Non ridere ti prego, ho davvero bisogno di riposare.

Ma dai su, ti passo a prendere tra venti minuti.

Come se non sai nemmeno dove abito?

Beh allora dammi l’indirizzo no?

Vediamo allora…

Ecco, questa è la mia specialità. Ottenere il massimo dagli ultimi tre giorni di vacanza. Ieri come oggi. I più intensi.

Suona la sveglia e non ho più tempo, cerco di ravviare le lenzuola sopra di me ma penso che posso concedermi ancora qualche istante. Penso ai miei prossimi ultimi tre giorni e come un bagliore incomincio a ritrovare le energie.  
Penso sia pazzesco, penso sia inutile vivere per pochi momenti. 
Sono certa che ognuno di noi debba sapere anticipare questo ultimo periodo che ciclicamente viviamo portandolo alla sua massima estensione temporale. Magari gli ultimi tre giorni potranno divenire un giorno per sempre. Perché no. 
Magari imparerò a collezionarli uno dietro l’altro, punto dopo punto, fino a disegnare un’unica linea.

La mia vita.

Penso tutto questo e trovo le forze per cambiare ancora una volta. Sono in piedi davanti la finestra della mia camera e la luce ad Est si alza tiepida come nella migliore giornate di Settembre.

Lascio il resto dietro di me e ricomincio un’altra volta. 

Ci sono riuscita.

mercoledì 1 luglio 2015

Strette di mano


Circondato. 

La sensazione, già provata troppe volte, è quella di essere nel posto sbagliato.

Mi ripeto che è il mio lavoro, che il mio sostentamento è legato anche a queste riunioni, che c’è chi sta peggio.

Eppure, il ronzio nella mia testa continua incessante.

- Possiamo cominciare allora. Prendete cortesemente posto



E pensare che l’ultima volta era stato tutto il contrario. Un contesto formale, cravatte, pose calcolate, frasi di circostanza. Falsi, avevo detto trattenendo la voglia di urlare il mio disgusto. Falsi e figli di un mondo che non mi appartiene, edificato su menzogne ed ingiustizie.
Oggi, invece, niente cravatte. Persone vestite in modo casual, senza particolare cura.

- Ciao, piacere Corrado Savelli

Bisbiglia la persona accanto a me, mentre sfoggia un sorriso da sopra la sua 
t-shirt blu. Io, ingessato nel vestito con tanto di cravatta rispondo a mezza bocca, semplicemente pronunciando il mio cognome, sperando che sia sufficiente. Mi ha dato del tu, penso.
Forse è una mancanza di rispetto, forse no. Eppure mi sento infastidito.

- Signori, per favore. Cerchiamo di dare inizio ai lavori

Siamo già con un’ora di ritardo. Nessuno sembra preoccuparsene, anzi. Nessuna formalità, ma qui si esagera.
Non va bene, neanche questa volta. Due riunioni, due realtà antitetiche che hanno generato in me la stessa sensazione di disagio. Due mondi opposti che non riescono a farmi sentire parte del sistema. Le parole del presidente (ma chi è che ha preso la parola?) procedono senza che ne colga davvero l’essenza.
C’è un’unica verità. Tutto ciò che non va è dentro di me.

Gli altri, loro, sono ben inseriti nel contesto, oggi come le altre volte. Sono io, il mio lavoro, forse la mia vita ad essere del tutto sconnessi.

- Grazie

Salgo sul palco ringraziando per l’invito e spendendo qualche parola di circostanza.
Espongo il mio intervento. 
Qualcuno chiacchiera con la mano davanti alla bocca, qualcun altro sfoglia pagine su un tablet sbadigliando. Alla fine un applauso. 
Ringrazio mentre ripongo i fogli nella cartellina che porto con me insieme al vestito con tanto di cravatta. Torno al mio posto chiedendomi quale sia la percezione di quella gente nei miei confronti. 
Ricaccio il pensiero indietro evitando di darmi una risposta.
La riunione prosegue senza che il mio disagio si plachi.

Torno in ufficio e solo a tarda sera mi dirigo verso casa.



I miei pensieri ripercorrono la giornata e le sensazioni che ho provato. Poi entro in casa e trovo sorrisi ad accogliermi. I miei cari, le mie passioni, le mie cose. Sono tutto fuorché un pesce fuor d’acqua.

È notte.

Sono vivo.

lunedì 1 giugno 2015

Fatigue


La fatica che scorre nel mio sangue è il motivo per cui non riesco a fermarmi.

E’ il motivo per cui cerco di non vanificare anche questa ennesima giornata a rincorrere qualcosa. 

E’ la mia essenza che mi permette di non cadere davanti lo stesso specchio che sto guardando.



La sento correre lungo le mie vene; l’avverto quando mi alzo la mattina, dal primo passo che metto a terra fino all'ultimo battito di ciglia della notte. 

La cosa più bella è che a nessuno, nemmeno a me stesso, riesco a dire la verità. Di quanto mi sia costato spingere in avanti tutto questo, di quanto tempo credo di aver buttato nel cesso. 
Della fatica che avverto nel dover difendere ogni volta la mia posizione. 

Del dover pensare sempre a come dire le cose e la fatica che faccio per non pensare a tutto come a un dramma.

La mia vita non ha permesso nemmeno un istante di guardarmi indietro, di essere ciò che sono veramente. Rifletto su questo attentamente e mi convinco che poi non è tanto male.




Basta ora piangersi addosso. Basta ora lamentarsi di come le cose non vadano o di come dovrebbero andare. Faticosamente metto in moto questa farsa cercando di ingannare me stesso.

Posso cambiare e allo stesso modo non riesco a mutare nulla. 
Posso riuscire oppure credere di aver sbagliato tutto. 
Sta tutto qui; bisogna però decidere da che parte schierarsi.

Io l’ho già fatto. 

La scelta è una cosa seria e senza saperlo l’effettuiamo continuamente lungo le nostre giornate, la nostra vita, il nostro viaggio.

- Senti ancora dolore?

- No, sembra passare. Non è poi tanto male

Fatica che a volte mi ha permesso di assaporare la vittoria come la sconfitta.
In ambedue i casi da protagonista e non da comparsa.

Mi sono sempre battuto per quello in cui credevo, veramente. La cosa non deve risultare come scontata e non può essere considerata come semplice demagogia. 

Per questo motivo ho preso calci nel di dietro e per questo motivo mi trovo ora ad aspettare il ventisette del mese con sempre più necessità.

- Vuoi che rimanga oppure che me ne vada?

- Rimani, posso ancora scaldarmi un poco.

Poco male, aspetto che le cose girino a mio favore perché tutto questo impegno non può cadere nel vuoto. 

Meglio procedere così, con lo spettro di aver sbagliato tutto ma convinto di aver percorso la strada giusta.
Nonostante il risultato non sia ancora scritto. 

Ci rifletto e credo che la mia non è più fatica, o meglio non lo è quella forza che avverto sulle mie spalle e che spinge ora le mie palpebre a chiudersi.

Lei è l’essenza stessa di questa mia dimensione. 

Solo con Lei mi sembra di essere più vero. Più vivo.



- Come stai ora?

- Meglio, meglio di quanto potessi credere. Davvero.

- Sai che non resterò qui a guardarti cadere ancora vero?

- Lo so.

- Allora cosa intendi fare?

- La sola cosa che va fatta.

- Hai voglia di riposarti un po’ prima?

- No…

Sorrido


giovedì 21 maggio 2015

Binario 1000


"Binario 1000", racconto breve premiato presso il Salone internazionale di Torino come quarto classificato nel "Concorso letterario nazionale 88.88" promosso dall'associazione culturale YOWRAS.

 
«Buongiorno» dissi con evidente imbarazzo alla donna che aveva appena aperto la porta ad uno sconosciuto.
Tutto era cominciato un anno prima, quando ero in attesa del treno nel paese in cui sono nato. La stazione era straordinariamente grande in confronto alla poca affluenza di passeggeri. Ben quattro binari correvano alternandosi a tre banchine in cemento. Poco più in là, altre rotaie finivano in un binario cieco, in cui da bambino avevo giocato immerso in mille avventure immaginarie. Binario mille lo chiamavamo, forse perché c’erano già quelli dall’uno al quattro e cinque ci sembrava riduttivo. Ricordavo benissimo i miei amici, l’erba che cresceva disordinata e meschina.
Era una domenica sera. Tornavo a Milano dopo aver fatto visita nel fine settimana ai miei genitori che abitavano ancora nella casa della mia infanzia. Ero solo nella stazione, avvolto nel prematuro buio dicembrino, punto dal freddo portato dal vento.
Ero in anticipo, come al solito. La curiosità e la nostalgia mi portarono vicino alla recinzione che limitava il nostro binario mille. Echi di giochi lontani stuzzicarono i miei sensi, riportando lucidi i ricordi di odori, colori e scherzi tra amici.
Era ancora lì, come lo ricordavo, schiavo dell’immobilismo che affligge da sempre il mio paese.
Di colpo vidi ombre muoversi in lontananza, dietro gli ultimi pilastri dell’edificio. Passi svelti, parole sussurrate.
Due, forse tre.
Risate, ragazzi probabilmente.
Insulti, fragore, urla.
Una richiesta di aiuto.
Il profumo della mia infanzia fu inghiottito in un istante da una palpitante preoccupazione.
Senza esitare cominciai a correre, con la valigia saldamente stretta nelle mani.
«Ehi voi!» Esclamai con il fiato corto.
Pochi altri passi e mi resi conto di quello che stava succedendo. Tre ragazzi stavano picchiando un senza tetto che aveva cercato riparo dal rigore della notte.
Vedendomi si fermarono come sbalorditi che qualcuno potesse davvero prendere un treno in transito in quella stazione. Lessi nei loro volti ancora imberbi la baldanza esaurirsi nel terrore di essere smascherati, probabilmente agli occhi dei genitori.
Uno di loro diresse insulti nella mia direzione e sferrò un calcio al viso del malcapitato a terra prima di correre via.
Feci letteralmente volare via la mia valigia e cominciai ad inseguire a perdifiato il trio. Pochi metri dopo mi ritrovai con le mani sulle ginocchia, troppo lontano da quei ragazzi che, spinti da qualcosa che non comprenderò mai, si erano accaniti in modo aberrante sul senza tetto.
Trovai le energie per correre indietro e sincerarmi delle condizioni dell’uomo.
Era a terra, ricurvo e intorpidito dal freddo. Il viso insanguinato e i cartoni che lo avrebbero dovuto riparare sparsi intorno a lui. Respirava a fatica.
«Tutto bene?» Mi sentii idiota nell’aver davvero pronunciato quelle parole.
Recuperai un minimo di lucidità e chiamai un’ambulanza. Poi, mi chinai sull’uomo.
«Stanno arrivando i soccorsi. Tieni duro. Riesci a sentirmi?»
Silenzio.
Mi vergogno ad ammetterlo, ma esitai diversi secondi prima di poggiare la mia mano sulla sua spalla.
Feci una lieve pressione e provai di nuovo ad interrogarlo.
Con una velocità che non avrei in nessun modo potuto preventivare, mi afferrò la mano.
Le sue dita sudice entrarono in contatto con le mie.
Lottai con me stesso, ma sconfissi il mio istinto di mollare la presa.
L’uomo, al contrario, strinse e sussurrò qualcosa.
Mi chinai, avvicinando il mio orecchio alla sua bocca.
“Beatrice”, riuscii a cogliere nel suo farfugliare. L’uomo, lasciò la presa e frugò in una tasca interna dalla sua giacca logora. Estrasse un piccolo ciondolo, simile ad una moneta bucata nel centro. Allungò la mano e fece scivolare il ninnolo nella mia, bisbigliando di nuovo lo stesso nome.
Poi fece cadere indietro la testa. Gli tenni la mano finché non arrivarono i soccorsi.
Persi il treno.
 
 
 
Rimasi sconvolto dalla notizia della morte del senza tetto. Dopo due giorni in terapia intensiva aveva smesso di lottare. Il suo già provato fisico non aveva retto ai colpi subiti.
Un agente di polizia a cui avevo lasciato i miei recapiti mi disse che il nome della vittima era Vladimiro Risi, ma tutti lo ricordavano come Didi. Non lo avevo mai visto prima, ma sembrava che in paese fosse conosciuto. Chiusi la telefonata rigirando il ciondolo tra le mani. Per qualche ragione, Didi aveva deciso di affidarmelo.
Trascorse un mese in cui fui particolarmente preso dal lavoro e mi lasciai travolgere dall’affannosa routine quotidiana. Finché non mi resi conto che non sarei stato degno di proseguire la mia vita se non avessi onorato la memoria di Didi, come ormai mi ero abituato a chiamarlo.
Feci delle indagini e scoprii che in passato era stato benestante, proprietario di una piccola azienda vinicola. Complice gli anni di crisi, gli affari avevano cominciato ad andare male e si era ritrovato in breve in mezzo ad una strada.
Non era stato sposato, né aveva stretti legami di parentela. Il tutto rese più difficile per me quello che sarebbe diventato uno scopo imprescindibile nella mia esistenza: rintracciare Beatrice.
 
Individuai un uomo che era stato suo dipendente. Mi raccontò che Didi era stato un uomo generoso, capace di dare una liquidazione premio ai suoi dipendenti quando era stato costretto a chiudere. Non seppe però darmi alcuna informazione sulla donna che stavo cercando. Mi comunicò tuttavia un paio di nomi di persone in qualche modo legate a Didi.
Impiegai due mesi per scoprire che portavano entrambi ad una pista cieca. Continuai allora a fare ricerche sulla società di Didi, scoprendo molti dettagli, ma nessuna pista concreta che conducesse ad una donna di nome Beatrice.
Cominciai a trascurare il mio lavoro e fui richiamato formalmente dal mio capo. Risposi che era un periodo difficile e che avrei preso dei giorni di ferie accumulati per ricaricarmi. Mentii senza provare alcun disagio.
 
Continuai a girovagare senza grandi risultati nei dintorni del mio paese. Le mie ferie si esaurirono troppo in fretta e tornai a Milano. Non facevo altro che pensare alla ricerca di Beatrice e, spesso, sognavo di notte il pestaggio di Didi al binario mille. Sei mesi dopo presi un’aspettativa al lavoro tra le minacce velate del mio capo e l’incredulità dei miei colleghi.
Feci delle indagini più intense. Entrai in possesso di un’enorme mole di dati sulla vita di Didi, grazie ad alcune amicizie che avevo nel mio paese. Cercai in ogni direzione.
Nel mio peregrinare feci visita alla banca dove aveva avuto il conto Didi. Con mia grossa sorpresa, riconobbi nel direttore della piccola filiale Samuele, un mio amico d’infanzia. Lo abbracciai con affetto e un attimo dopo ci ritrovammo a ricordare i meravigliosi momenti condivisi da bambini. Non tralasciammo, ovviamente, il mitico binario mille.
Fu in quell’istante che gli raccontai il motivo della mia visita. I visi sorridenti sfumarono in pochi istanti.
Chiesi aiuto al mio amico di vecchia data.
Non che potesse fare molto, mi disse, ma diede comunque un’occhiata alle movimentazioni del conto di Didi e della sua società. Stava forse violando qualche normativa sulla privacy, ma mi spiegò che aveva notato qualcosa di particolare, un numero cospicuo di versamenti a favore di una società di cui mi rivelò il nome, pregandomi di non fare parola a nessuno di quanto mi aveva comunicato.
Ci lasciammo con la promessa di rivederci presto.
 
Rintracciai la società e scoprii che si trattava di una cooperativa che operava a favore di bambini in difficoltà, per lo più orfani. Didi era un filantropo, conclusi. Valeva la pena approfondire la faccenda.
Salii su un treno verso Lecce, sede della cooperativa.
Alberi si alternavano a piccoli paesi arroccati sugli Appennini. Il cielo grigio, sferzato qua e là da dorati raggi di sole, era la cornice del turbinio dei miei pensieri disordinati. Mi chiesi chi fosse davvero quell’uomo che aveva concluso i suoi giorni celato dietro ad abiti logori e barba incolta.
Raggiunsi infine la porta della cooperativa. Suonai al campanello.
 
 
 
«Buongiorno» dissi con evidente imbarazzo alla donna che aveva appena aperto la porta ad uno sconosciuto. Era una suora di nome Benedetta.
Mi invitò ad entrare e le chiesi se conoscesse Didi o una donna di nome Beatrice. Ero pronto ad andarmene, temendo di essere di fronte all’ennesimo vicolo cieco, quando la sorella cominciò a parlare con voce tesa.
Mi disse che, tanti anni prima, era stata amica inseparabile di un bambino meraviglioso. Con il passare degli anni, l’amicizia era tramutata in sentimenti più profondi. Quel bambino era divenuto un ragazzo incantevole dai modi gentili ed eleganti. I suoi genitori erano però contrari a quel legame ed avevano proibito alla ragazza di incontrare il giovane. Lei aveva disubbidito più volte per vedere il suo Vladimiro, così si chiamava, finché era stata scoperta dai genitori e costretta a prendere i voti in convento.
Vladimiro le aveva promesso che l’avrebbe aspettata tutta la vita e che l’avrebbe pensata ogni giorno.
Suor Benedetta aveva trovato la vocazione e proseguito la sua vita monacale. Avevano continuato a sentirsi e Vladimiro le aveva inviato frequentemente donazioni per la sua missione con i bambini.
Disse poi che pochi anni prima Didi aveva inviato un grossa cifra in denaro per curare un bambino malato di leucemia. La suora sorrise dicendo che il bambino era ora sano e felice.
Da quel momento aveva ricevuto solo due comunicazioni scarne, l’ultima quasi due anni prima.
Concluse la storia dicendo che il suo nome prima di prendere i voti era Beatrice.
Ero sconvolto e non riuscii a trattenere una sottile lacrima che scivolò sul mio viso contratto.
Guardai Beatrice e le posi quel ciondolo da cui non mi ero mai separato.
Lei lo guardò, lo strinse tra le mani sbarrando gli occhi. Capì senza che io dicessi nulla.
Un attimo dopo ci ritrovammo abbracciati lasciando esplodere un pianto tanto disperato e gravoso quanto liberatorio.
La mia vita non sarebbe stata più la stessa.
 

 
 
 
 
 
 
 




 
 

giovedì 23 aprile 2015

Temporale


Sono rimasta chiusa fuori casa proprio mentre impazzava un temporale. Ho corso a piedi mentre nubi nere cariche di pioggia minacciavano il cielo fin dall’orizzonte. Tuoni e lampi che si alternavano, due facce della stessa medaglia pronti a gareggiare nel cielo e ad ingannare i nostri sensi.

Ho corso, ma è stato soltanto davanti alla porta di casa che mi sono resa conto che non avevo le chiavi. Ho frugato nelle tasche. Poi nella borsa. Dovevano essere lì! Per forza! Macché…
Mi sono guardata intorno, in cerca di non so cosa. Andare dai miei, chiedere aiuto, aspettare il ritorno a casa di Alessandro. Avevo diverse possibilità. Mi fermai a riflettere nel momento in cui una piccola goccia d’acqua rimbalzò sul mio naso zampillando nell’aria improvvisamente agitata ed elettrica.
Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove.



Invece mi fermai lì a guardare. Non so per quale ragione rimasi ipnotizzata dalle cime degli alberi scosse appena dal vento, dalle nubi che correvano sempre più veloci. Gocce che cadevano pesanti e violente, fitte così tanto da impedirmi di vedere lontano. Il paesaggio era cambiato in modo repentino e drastico. Anche i soliti rumori erano spariti sovrastati da un martellante battere su ogni superficie esposta alla furia delle intemperie.

Mi ritrovai bagnata, anzi, inzuppata dalla testa ai piedi. I vestiti si erano attaccati al mio corpo e i capelli, pesanti, si erano uniti in grandi ciocche gocciolanti.

Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove.
Ormai sarebbe stato superfluo e irragionevole cercare un luogo protetto. Ero finita nell’apice della furia della pioggia, non temevo più nulla. L’intensità delle precipitazioni rimase elevata per un po’, con tuoni e lampi sempre più vicini l’un l’altro, fusi in un abbraccio che mi fece sentire piccola al confronto con la potenza della natura. Cominciai a sentire freddo e fui percorsa da brividi lungo tutto il corpo. La pelle d’oca prese possesso delle mie braccia.
Eppure, senza un perché, cominciai a ridere. Alzai le braccia al cielo senza riuscire a fermare le risate che mi fecero aprire il viso in un sorriso esteso e libero. Le gocce rimbalzavano sui miei occhi chiusi, mentre tenevo il volto ricolto l’alto, grata di essere viva, felice di poter ridere senza un vero motivo.

- Ha bisogno di aiuto? Le serve un ombrello?

Un signore gentile che si preoccupò di me.

- No! La ringrazio!

Quasi gli scoppiai a ridere in faccia e non comprese affatto come le mie emozioni potessero sposarsi con il clima avverso che imperversava in quel momento.

La pioggia calò di intensità mentre io continuavo ad esibirmi in lente piroette sempre con lo sguardo rivolto verso un futuro che sarebbe arrivato, che avrebbe cambiato il presente, in cui tutto quello che è adesso sarebbe stato solo un ricordo, affievolendo il piacevole ed edulcorando lo sgradevole.

Tutto sarebbe passato, ovvio, ma avevo deciso di non fermarmi alle apparenze e di cogliere quanto c’è di bello in un temporale, di vivere intensamente quel momento, di sentire l’acqua dentro di me.

Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove.






Quando l’ultima goccia solcò solitaria l’aria umida io ero ancora lì, intrisa di pioggia, raffreddata, pronta a cogliere un riflesso di sole che si faceva largo con fatica tra le nuvole caotiche.

Ed ancora senza chiavi.

Sarei potuta andare via, trovare un riparo, scappare chissà dove, invece scoppiai a ridere un’altra volta.