Miyajima

Miyajima

mercoledì 26 marzo 2014

Ricordi d'infanzia

Un breve racconto emozionale, che coinvolge la mente e diversi sensi.

Istruzioni per la lettura:


1.       Ascoltare in sottofondo la Canzone: Cats in the cradle, Harry Chapin. Qui, in una fantastica versione dal vivo: http://www.youtube.com/watch?v=-s5r2spPJ8g 

   Vi consiglio anche di leggere il testo del brano.
 
2.       Pensare ad un meraviglioso arcobaleno

3.       Leggere quanto segue:



Corsi fuori come un razzo. Avevo appena ingoiato l’ultimo boccone di un tipico pasto estivo. Chiusi la porta alle mie spalle mentre l’inconfondibile rumore di stoviglie che cozzano l’una con l’altra occupava il silenzio che stavo lasciando. Mia madre aveva iniziato a rimettere in ordine la cucina.
Uscii nel giardino di casa. Il sole era alto ed il cielo straordinariamente terso. In un attimo la mia fronte divenne madida di sudore.
La scuola era un ricordo e l’estate stava entrando nel suo cuore. Ancora non era tempo di vera vacanza, ma ero felice lo stesso. Avevo i miei amici, la mia quotidianità, i miei giochi, la mia fanciullezza, la mia famiglia.
Mio padre lavorava quei giorni di metà luglio. Era impiegato in una società e non avevo idea di cosa facesse tutti i giorni tra le quattro mura del suo ufficio. Quel giorno era però un venerdì: avrebbe lavorato mezza giornata e sarebbe tornato a casa nel primo pomeriggio. Per questo mi ero precipitato in giardino, per vedere arrivare la sua auto, per corrergli incontro.
Mi avvicinai alla recinzione fatta di legno su cui si arrampicava una timida siepe che lasciava intravedere la strada di fronte. In pochi istanti mi lasciai cullare dai miei pensieri di fanciullo: eroi, mondi fantastici, creature meravigliose, antieroi. Tenevo le mani strette all’estremità triangolare della recinzione mentre le gambe si muovevano da sole piroettando sui piedi al ritmo dei miei pensieri, come solo i bambini sanno fare.
Soltanto il rumore delle automobili che transitavano sporadiche interrompeva i miei voli pindarici. No, non è lui, ripetevo ad ogni passaggio. Mia madre di tanto in tanto mi osservava da dietro la finestra, sorridendo senza che me ne accorgessi.
Anche quella volta rimasi una mezz’ora in attesa, con indosso la solita maglietta logora. Transitò un’altra auto. Il colore era quello giusto, la forma anche.
Il battito del mio cuore accelerò senza freni. Riconobbi all’istante il volto di mio padre dietro al parabrezza e il colpo di clacson fu una sinfonia di emozioni. Corsi incurante di tutto per abbracciarlo non appena fosse uscito dall’auto.

Mia madre ancora sorrideva dietro alla finestra.

mercoledì 19 marzo 2014

Supermarket


So bene perché sono qui in questo momento. Sembrerà strano ma riesco ad esserne pienamente consapevole, senza troppe difficoltà. Il segreto è avere appreso e metabolizzato il fatto di avere uno scopo per ogni istante della mia vita, pur non conoscendolo. 
Il fatto che esista, lo so, ne sono certo è quanto basta.  
La differenza tra me e tutto il resto è proprio questo. Il mio scopo è quello di vivere ogni istante come fosse l’ultimo anche senza conoscere fino in fondo le cause.

Ore 19:50 Chiusura Supermarket

La fila estenuante non mi preoccupa. Quella che poteva essere una giornata tremenda non terminerà così mestamente. Il mio è un “No” assoluto.

"Permette?"

"Come scusi?"

"Permette, devo prendere il carrello?"

"Che modi! Maleducato!"

Supero la porta scorrevole di entrata e la prima sensazione è di freddo. Se possibile ancor più pungente del vento in tangenziale. 
Ancora di più dell’ultimo saluto di chi ho amato e amo ancora. Non mi perdo dietro facili riflessioni però. Prendo l’ultimo carrello rimasto pentendomene subito, penso che questi maledetti “Padri” del consumo mi hanno già “fregato”. Mi aggiro tra gli ortaggi di stagione: cavoli, broccoli e cavolfiori convinto di potercela fare a comprare lo stretto necessario. Questo è quanto l’inverno può ancora raccontare. Inizio a somatizzare il fatto che la giornata stia terminando, supero gli ultimi brividi di freddo che ho sulla schiena e raccolgo le quattro cose che mi servono. 
Rovisto tra varie etichette “bio” con occhio attento.

"Carla ti prendi  solo quelle con lo “0” sopra."

"Queste non lo sono?"

"No, non lo sono…solo uova con lo “0” ti ho detto."

Tra  una sede di produzione e l’altra, da una data di confezionamento a una di scadenza mi arrovello ancora su qualche barlume di incazzatura giornaliera. Poco importa, continuo a immagazzinare ogni informazione come Keyser Soze. Ad ogni passo sento di acquistare il controllo della situazione.  Inizio a leggere parole senza senso mentre davanti a me un anziana signora si sofferma davanti l’ultima busta di insalata. Mentre mi avvicino al mio trofeo scorro etichette arrecanti slogan come “prodotto” a Spoleto, Asiago, Latina, Brescia. Trovo davanti i miei occhi i nomi di posti che non ho mai visto ma è come se li avessi sempre vissuti. Mi avvicino, il verde della busta devo dire è particolarmente intrigante. Vado sicuro, il formato è per single, si tratta di una manciata di grammi. 
Posso affermare che la busta è mia. 
Mi affretto pensando all'appuntamento di questa sera.

"Scusi riesce a dirmi la data di scadenza per quell'insalata."

La voce mi arriva come una eco elfica. Sento già  i canti in lontananza di Tom Bombadil. Mi riprendo.

"Scusi?"

"Le chiedevo se sapeva dirmi quando scade la busta dell’insalata. Sa alla mi età non si vede poi tanto bene."

I neon del supermercato iniziano ad entrare nella mia cornea con una certa insistenza. Rimango sempre più stordito non tanto per il fatto che a quest’ora il mio unico pensiero è andare a casa. Rimango di stucco perché la busta l’ho già presa, è nella mia mano.  Ho davanti una genio del male?

"Vediamo, scade oggi signora. Ecco, riesce a vedere?"

Mento spudoratamente.

"Le ho detto che non ci vedo. Beh, se scade oggi però credo che per me possa andare bene lo stesso."

Ardita devo dire. Questi classe ’32 non mollano mai, non c’è nulla da fare.

"Prego Signora, prenda pure."

Contraggo ogni parte del mio corpo. Perché continuo a mentire  a me stesso?

"La voleva lei? Prenda pure, non c’è alcun problema." 

"Vede ho lasciato Spike fuori che sta abbaiando. Forse è il momento che esca, mi può vedere se c’è qualcos’altro che non scada oggi?"

Arriva l’inspiegabile. Agisco imprudentemente, dalla bocca mi escono parole alla mente senza senso. Non rispondo di me.

"Signora, la prego,  prenda pure. Non importa. Questa sera mangerò altro."

Sorrido mentendo a lei e a me stesso.  Mi faccio schifo.

"Grazie allora, grazie davvero."

"Di nulla." Balorda penso.

Continuo il mio peregrinare tra gli scaffali svuotati, cerco di dare un senso alle mie azioni ma non riesco. Il senso non è per forza dentro le cose. Il senso di quello che compio non lo comprendo mai. Almeno non immediatamente. 
Cammino verso l’uscita, con fare da sconfitto, e lentamente mi avvicino alle serrande delle grandi porte finestre. 
Da lontano vedo il cammino dinoccolato di una persona ed il suo cane. Soli rispetto al resto delle auto che corrono.

Il Senso forse è come il trucco di un mago, c’è ma non si vede.

mercoledì 5 marzo 2014

Norme e cerotti


Una forbice mi scappa di mano. Una goccia di sangue compare sul dito e rischia di cadere sulla mia scrivania. Lavoro in questo laboratorio da poco tempo. Un po’ imbarazzato mi dirigo verso la cassetta del pronto soccorso che ho identificato qualche giorno fa. Non voglio disturbare nessuno per questa sciocchezza. Sono lì per aprirla, per cercare un cerotto, ma sento una voce alle mie spalle: “che fai?”
“Cerco un cerotto, mi sono tagliato” dico mentre esibisco la ferita come a voler sottolineare quello che sembra del tutto evidente. A rivolgersi a me è Flavia, lavora in segreteria.
“Non aprire la cassetta, quella deve rimanere intatta. Vieni di là, ti do io un cerotto”. La seguo perplesso. Un attimo dopo tira fuori un cerotto da una cassetta del pronto soccorso, simile a quell’altra. Non capisco. Mi spiega che la prima cassetta, quella in bella mostra e che conoscevo io, deve rimanere intatta perché in caso di controlli da parte della sicurezza sul lavoro deve essere tutto a posto.
Me ne torno alla mia scrivania quasi stordito. Nell’ufficio c’è una cassetta del pronto soccorso che serve solamente ad essere ispezionata e che però non serve a nulla in sostanza. Ragiono su quante volte le nostre azioni siano volte a soddisfare una norma nella forma e non nella sostanza. Penso alla revisione dell’auto. La facciamo senza preoccuparci (noi e l’autofficina che la esegue) che tutto sia veramente a posto. Però abbiamo il timbro da esibire alla pattuglia di turno. La revisione della caldaia, alcune tasse, gli esami all’università. Già, studiamo per il pezzo di carta o per imparare davvero?
Ma anche il codice della strada. È costruito per far funzionare la circolazione? Rispettiamo i limiti e le indicazioni perché abbiamo la percezione che stiamo facendo la cosa giusta, per la nostra e l’altrui sicurezza?
La mia risposta, mentre mi siedo sulla poltrona nera con lo schienale ortopedico a norma a cui la mia schiena ancora non si è abituata, è no.
C’è una distanza abissale tra ciò che facciamo per una ragione sostanziale e ciò che facciamo perché ci viene detto. Eppure, in molti casi ed in teoria, le due cose dovrebbero coincidere.
Quindi, in qualche modo, decontestualizziamo le nostre azioni. A livello sociale questo fatto ha una forte implicazione. Mi perdo nei pensieri. Cerco una relazione causa effetto che sia legata alla realtà dei fatti, alla società, alla nostra crescita globale, ma non la trovo.
Mi sento smarrito.
Vedo una sottile scia di sangue rompere l’argine del cerotto. Avrei bisogno di una garza sterile per tamponare. Senza esitazione, vado in bagno ed uso la carta igienica.