Miyajima

Miyajima

mercoledì 9 aprile 2014

Una Vita


Ho imparato a vivere con le altre persone, ho imparato a stare con gli altri condividendo quello che provo. Credo di aver imparato ad ascoltare e comprendere.

In questo momento seguo una bandierina gialla attaccata ad un’asta di circa un metro. Attorno al mio collo vesto un fazzoletto dello stesso colore di altre 30 persone.   Tutte marciano uniformi davanti a me, tutte sorridenti.  Un branco di “pecore” avrei pensato anni fa eppure eccomi qua, a mio agio nel gregge.

La mia vista non è più quella di una volta e nemmeno le persone care, le più importanti, sono più vicino a me. In questo momento ho accanto una donna che potrei definire “Compagna” e che come me è divenuta nel tempo “Altro”. Qualcosa che neanche lei avrebbe immaginato in passato.

"Signori ancora un momento di attenzione vi prego. Tra un po’ potremo riposarci in qualche ristorante o bar . Prima però di chiudere l’itinerario di questa mattina vorrei illustrarvi un’altra statua di piazza della Signoria. Alle mie spalle potete ammirare “Ercole e Caco” di Baccio Bandinelli del 1533, l’opera rappresenta…"

Negli occhi delle persone riesco a riconoscere ogni mio errore, mi basta veramente poco. Sarà che ho trascorso larga parte della mia vita ad alzarmi prima del sole, a sentirmi dire le cose da fare, a costruire strade. La mia attività era quella di spalare il cemento, asfaltare e poi ancora spalare. Le mie giornate si susseguivano così, una dietro l’altra. Istante dopo istante.

"Se non sbaglio è stato definito l’”invidioso” vero?"

"Corretto Vittorio! Baccio è stato definito dal Vasari l’”invidioso” in quanto…"

Non riesco a partecipare fino in fondo, rimango sempre in disparte. Vorrei essere come il mio compagno di viaggio Vittorio, intento a sottolineare le sue reminiscenze classiche. La sua vita può definirsi diametralmente opposta alla mia. Una vita serena, una famiglia solida, nessun dramma emotivo. Due figli che vede al week end, nuore, nipoti e tutto il resto. Il suo non è un volto segnato.

Al contrario su di me le rughe si sono affastellate con sapienza, ricoprendo il mio volto. Mi permettono di tenere lontano sguardi indiscreti, di difendermi ma al tempo stesso di rappresentarmi per quello che sono.  Un vecchio.

"Alberto ci prendiamo un panino? Ti va?"

"Si, sediamoci però, magari al sole. Non voglio perdermi questo spettacolo."

Una breve pausa e riprendiamo a camminare io ed Anna, distaccandoci dal resto del gruppo. 
Quello che lascio sotto i miei piedi è il pensiero che la mia vita sarebbe potuta andare diversamente. La luce di questo splendido sole riflette sulle finestre  e ogni riflesso colpisce i miei occhi. Continuamente. 
In questo momento penso che probabilmente avrei potuto stare più vicino a mio figlio. Probabilmente sarei dovuto essere un padre. Il pensiero corre ancora una volta a lui, indietro, nel passato.

"Lasciami stare! Mi fai solo pena ecco cosa. Mi fai pena tu e la tua vita."

"Non azzardarti a rivolgerti così con me hai capito. Questa è casa mia Luca e qui decido io. Se così non ti va bene quella è la porta!"

"Mi fai schifo, tu e la tua vita."



Queste parole, dopo anni, risuonano ancora nella mia testa. La voce di mio figlio, la voce di chi amo.

Penso ai miei errori, quelli che ho commesso e  quelli che avrei potuto risparmiarmi. Penso che in fondo le mie mani non siano state create solamente per impugnare un badile o aggredire qualcun altro. Penso  che la mia voce non sia stata solamente un mezzo di ordine e disciplina. Nonostante ciò ascolto continuamente quelle mie ultime parole, rivedo nitidamente quella porta sbattuta davanti i miei occhi.

"Signori prego, avviciniamoci al pullman. Dobbiamo rientrare, domani riprenderemo dagli Uffizi dopodiché…"

"Alberto tutto bene?"

"Come?"

"Alberto tutto bene? Dobbiamo andare vieni, la guida ci ha detto che dobbiamo risalire sul pullman, si torna alla pensione."

"Andiamo Anna. Andiamocene"

Salgo ogni gradino di questo autobus e vivo questa mia fatica come un giusto peso delle mie azioni. Il vigore nelle mie braccia è ormai spento e il fiato dentro i polmoni non soffia più come prima. 
Fantastico sulla possibilità che la vita possa cambiare in qualsiasi momento, mi diverto nell'immaginare di riabbracciare Luca. Una lacrima mi bagna appena le pupilla, trascorre un secondo e convengo sul fatto che sono troppo orgoglioso. Sia io che Lui. Troppo simili e troppo diversi allo stesso tempo per potersi dire basta.

Dopo essermi sistemato con Anna sui posti assegnati mi guardo intorno.  Alla mia sinistra le mani di una donna che insieme a me credo abbia trovato pace. Davanti una banda festante di teste calve e bianche, gli occhiali delle signore un tempo giovani, i volti segnati dalla fatica e dalla sofferenza. Scorro dal finestrino di destra e in lontananza intravedo Ponte Vecchio. 

Sulle mura medievali di questa città, irradiate da un fantastico sole di Aprile, vedo asciugarsi anche l’ultimo barlume di umidità.

Tutto, anche se in movimento sembra così immobile.

Stringo il poggiatesta davanti a me con tutte e due le mani, rivedo i pomeriggi trascorsi al parco. Io e Luca. Sento le su mani avvinghiarsi alle mie spalle, il rumore del suo sorriso, il calore del suo fiato sul mio collo.

Sento tutto questo quando intorno mi sembra che ogni cosa stia passando così, senza un motivo.

Accartoccio un opuscolo di Firenze nella mia mano destra, stringo insistentemente fino a sgretolare il pezzo di carta.

Guardo fuori e l’Arno continua scorrere indifferente.


giovedì 3 aprile 2014

Primavera




Foglie, fiori e un sole che mi ricorda che la primavera è arrivata scalciando via un inverno timido che non ha mai ruggito veramente. Mi sveglio come spaesato, senza punti di riferimento. Dicono che la primavera produca effetti del genere. Non ci ho mai creduto veramente.

Decido di camminare all’aria aperta in questa domenica di sole.

Le mie gambe si muovono senza un controllo effettivo, decidendo quasi in autonomia la direzione da prendere. Raggiungo il parco vicino casa.

Margherite, foglie nuove illuminate da raggi di sole, profumi che erano rimasti sopiti per un tempo che non so quantificare.




Cammino calpestando una ghiaia sottile e fina che scricchiola appena sotto i miei piedi. Mi perdo nei pensieri, ma non riesco a mettere a fuoco nulla e mi lascio andare ad un confuso moto di ricordi disordinati.

Decido di sedermi su una panchina di legno. Un albero, non saprei dire quale, mi fa ombra a metà.

Davanti a me bambini corrono dietro ad un pallone. Sono piccoli e non devono indossare nessuna maschera per interagire tra loro. Ridono impegnandosi goffamente. Due ragazzi adolescenti si baciano con passione. Sono persi nel loro mondo a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta, dove tutto è contraddizione. Una signora porta a spasso un cagnetto con un muso che ispira simpatia a volontà.

Guardando più in là, ragazzi vanno in bicicletta, altri bambini giocano con un frisbee, qualcuno passeggia, un signore legge un libro, due ragazzi hanno in mano un cellulare e ridono di tutto gusto. Chissà perché.

Mi chiedo cosa porterà a casa ognuno di loro al rientro dalla mattinata al parco. Spensieratezza, felicità, divertimento, gioia.

«Scusi! Può tirarci la palla?» Vedo la palla colorata proprio davanti ai miei piedi. Mi ricordo di quando ero bambino ed in un attimo sono di nuovo nel vortice delle mie elucubrazioni.

Non sono riuscito a trovare l’equilibrio che cerco dal mio risveglio questa mattina. Vorrei dare un senso a questa giornata soleggiata, ma proprio non ci riesco.

Riprendo a camminare.

Una ragazza sdraiata sul prato è concentrata su un enorme quaderno colmo di minuscoli appunti ordinati. Ognuno sembra ben inserito in questo contesto. Ognuno sa cosa fare, per quanto tempo e con quali modalità.

Dannazione, penso, vorrei riuscire anche io a trovare un punto di riferimento.

Nessuno crea un diversivo nella mia mattinata; vorrei giocare con un bambino, salvare una ragazza prima che caschi dai pattini, recuperare un cane scappato, giocare a scacchi, dire l’ora ad un passante, scambiare sorrisi, discutere del più e del meno, studiare gli appunti con la ragazza di prima. Niente, nessuno mi dà importanza o cerca in me l’interlocutore di un qualsivoglia dialogo.   

Decido di tornare verso casa. È quasi mezzogiorno e non ho concluso nulla di soddisfacente. Sono ancora confuso e soltanto mentre lascio il parco alle mie spalle mi ricordo che ieri sera, durante una festa organizzata da amici, mentre la lucidità era offuscata dall’alcool, ho dato appuntamento ad una donna per un aperitivo alle dodici in punto. Chissà dove, penso, era l’appuntamento. Non so, e comunque sono in tremendo ritardo.

Rita, Lucia. No, Flavia. Non ricordo il suo nome. Non so nemmeno se ho un suo recapito.

Mentre cerco di fare mente locale, mi accorgo di essere davanti alla porta di casa.

Nemmeno questo ricordo è servito come diversivo.

Completamente perso nel mio turbamento, nel dubbio spengo il cellulare e mi lascio andare sull’amaca che ho in giardino. Le note di una musica lontana si mischiano ad echi di parole mai dette.

Chiudo gli occhi e vedo ciò che più mi manca al mondo.