Miyajima

Miyajima

mercoledì 18 dicembre 2013

Libertà


È un tema vasto, difficile e delicato. Ragionavo però su un fatto. Se consideriamo la nostra società odierna e la confrontiamo con una di duemila anni fa vediamo che, da un certo punto di vista, siamo meno liberi. Poiché la complessità, soprattutto a livello globale, è aumentata in modo vertiginoso e le possibilità di uscire dal sistema sono diminuite in modo drastico. Mi spiego meglio. Oggi quasi non è possibile ignorare le leggi (almeno alcune), non essere identificabili, vivere in modo isolato o decidere di fondare una nuova città con nuove regole. Probabilmente, tutto questo era più semplice duemila anni fa. La domanda successiva è: chi sta meglio? Viste le mie aspettative di vita, la qualità della stessa, il fatto che non debba preoccuparmi di guerre o carestie e che ho accesso ad una quantità di agevolazioni (cibo, possibilità di viaggiare, di studiare, di divertirmi…) mi fa dire che scelgo questo tempo.

Ora, il passo speculare del ragionamento (semplicistico, per carità) è: supponiamo che tra cento, mille, diecimila anni (fate voi) il progresso porterà a migliorare le condizioni della vita a tal punto che non esisteranno guerre, povertà, conflitti e che il mondo sarà popolato da una massa di persone felici e spensierate, ma poco libere.

Lo spunto è Il Mondo Nuovo di Huxley, in cui ogni essere umano, da embrione a defunto, segue dei binari ben precisi a seconda della propria classe sociale di appartenenza, risultando anche felice di essere ciò che è. Una buona dose di “soma” e di intrattenimento consentito e la vita scorre senza problemi (addirittura senza vecchiaia).

Quindi, in questo ipotetico futuro, l’assenza completa di libertà, di poter decidere della propria vita ha portato alla felicità e alla risoluzione di una gran parte dei problemi dell’umanità.

Verrebbe da applicare un banale sillogismo: io sto meglio di un antico romano perché sono più felice, ho più possibilità, salute…etc. seppure sono meno libero.

Allo stesso modo, un ipotetico abitante del Mondo Nuovo sta meglio di me perché è più felice, ha più possibilità, salute…etc. seppure è meno libero.

Non sembrano stare così le cose. Per gioco ho chiesto l’opinione ad alcune persone: sarebbero pronte a sacrificare totalmente il libero arbitrio per la felicità globale? Essendo peraltro inconsapevoli dell’assenza di arbitrio e, quindi, senza sentirne il peso?

La risposta è stata no, no, no. Unanime.

Quindi, dove sta il confine tra il caos e una società organizzata a tal punto da distruggere il libero arbitrio? Qual è il modello che coniuga perfettamente la libertà con l’opportunità, il singolo con il collettivo, il libero arbitrio con le scelte comuni. Non sono sicuro che il nostro mondo si stia muovendo nella direzione giusta. Probabilmente il giusto compromesso, o qualcosa che ci si avvicini molto, è ancora lontano da raggiungere e, forse, la nostra stessa natura ci impedirà di raggiungerlo.

Chiudo con l’immagine di Cypher di Matrix che mangia una succulenta bistecca creata ad arte dalle macchine e sarebbe felice di vivere nell’ignoranza del mondo fittizio che però è in grado di regalargli tante belle emozioni che non sono altro che impulsi inviati al cervello e non vissuti veramente.

lunedì 9 dicembre 2013

I problemi della società. Solo colpa delle istituzioni?


Problema: avere un problema non è necessariamente colpa di qualcuno o qualcosa. Potremmo avere un “Problema” ad esempio per il solo fatto di essere noi stessi. Di conseguenza, visto che “siamo” necessariamente noi stessi, perché il resto del mondo deve continuare a rompere fin nel profondo? E in più, perché là dove non ci siano poi tanti temi da approfondire oppure tante considerazioni da sostenere non facciamo altro che dire che è colpa di questo o di quello? OK, non mi nascondo, sono cresciuto con il concetto di colpa ben radicato nel profondo del mio sentire. Qualcosa come: “Attento che poi prendi il raffreddore!” oppure “Guarda che poi se cadi è colpa tua e di nessun altro” o ancora “Tesoro è colpa tua se hai saputo dare più attenzioni a quella di quante ne abbia date a me”. Ebbene, partendo da questo presupposto di colpa, riusciamo a individuare quello che in questo momento ho necessità di esprimere. Non è un problema degli altri, è un problema nostro. Certamente. Ci lamentiamo continuamente di quello che vediamo la sera davanti allo schermo, ci lamentiamo perché tanta corruzione non è poi sopportabile, perché in fondo niente di quello che accade ci sembra appartenere. In fondo non ci somiglia no? Navigando come un disperato, seguitando a tamburellare sul telecomando nell’attesa di trovare quel tasto che sicuramente mi porterà alla verità delle cose, incappo in una di quelle trasmissioni in cui i politici si divertono a litigare e cercano di parlare dei problemi degli altri (addirittura di un Paese!) quando invece si palesa come l’unico loro interesse sia legato, nella migliore delle ipotesi, alla propria progenie. Non resisto, l’aspirina non fa effetto e nemmeno l’aulin che ho ingurgitato accenna un timido effetto lenitivo. Nonostante ciò, di fronte all’ennesima promessa di riscatto e di ripresa, sento il bisogno di cambiare aria. Precipitosamente mi rivolgo verso il primo specchio della casa, corro fin nel bagno e prima scoperta: lo specchio è pulito e per nulla appannato. Reazione: sconcerto puro! Ecco vedete, i problemi  (anche quelli attesi) possono anche (molto raramente) non manifestarsi. Inizio a crogiolarmi su quanto la mia attività e la mia attenzione verso i particolari mi renda un uomo nuovo. Si, esclamo al mio cuore. Tutte quelle menate zen sono vere, ho iniziato a capire che il primo passo nasce da me ed ecco, tutto può migliorare con piccole azioni. Pienezza d’animo, piena realizzazione, quasi metempsicosi. Mi riprendo però dall’idea di una produzione di koan a riguardo. Lascio la verticale su come si debba o si possa essere. Lascio il tempo scorrere. Passano alcuni secondi e scopro che due: lo specchio non è poi tanto pulito quanto credessi. In fondo non ci avevo nemmeno tanto creduto. Sconfitta, ma nemmeno poi tanto. Quasi pareggio. Tre: la persona davanti allo specchio è sicuramente la migliore. Meglio di quanti sono seduti sugli scranni del potere, delle decisioni, meglio sicuramente di quanto possa immaginare il miglior movimento politico, di origine comica o meno, di questo Paese Italia. Insomma, diciamo la verità, chi di noi guardandosi a fondo non trova poi il meglio che questo suolo Mediterraneo può (possa) offrire? Alla fine del percorso svaniscono tutte quelle fastidiosissime idee di disgusto, di ripudio, di odio verso ciò che non funziona.  “Ah, maledetti Voi. Governo ladro!” Certo si. Vero, credo sia proprio così. Continuando però a guardare nello specchio noto che non posso mentire più di tanto.

Vero, in fondo quella persona davanti  a me sull’autobus è sicuramente anziana (la veneranda età si manifesta certo dalle rughe e dal generale avvizzimento della pelle, non meno però dall’abbigliamento che non lascia scampo a immagini peterpanesche). Sicuramente la signora è in piedi mentre io sto con il sedere spaparanzato sopra questo fantastico sedile deturpato da acronimi e simboli celtici. Sicuramente uno di noi due ha più bisogno dell’altro di mutare la propria posizione. Sicuramente uno di noi due ha bisogno di capire come possa essere possibile arrivare a tanto, se questa poi (credo di pensarlo solo io questo) debba essere ogni santa mattina la mia personale storia. Lo stop della fermata mi lascia trascinare il busto in avanti con un vago moto inerziale, la signora imperterrita davanti ai miei occhi ha completamente abbandonato l’idea del perché e del come. Ebbene, cosa mi spinge a non alzarmi? In fondo posso in qualsiasi momento, lo so. Sono sicuro, lo posso fare. E poi c’è da dire che probabilmente la nonna (o presunta tale) non ne ha neanche bisogno. Poi l’inaspettato, si rovescia la busta con le 4 mele prese al mercato, una croce di d’aglio si lascia cadere quasi fin sotto la mia seggiola, intorno qualcuno cerca invano di mimare un accenno di aiuto. Niente. Immobilità. Solo in questo momento nasce l’esigenza, da parte di un temerario vicino a me, di porgere il proprio trono, guadagnato probabilmente attraverso una sacra prenotazione. La signora, esterrefatta da tanta magnanimità, sicuramente non più abituata a tanta umanità, sorride e come nulla fosse prende a parlare con una sua coeva, che le siede immediatamente dietro e che fino a quel momento sembrava appartenere ad un altro spazio o dimensione. Le uniche voci che separano la mia personalissima vergogna da tutto il resto sono lamenti che squarciano il mio, apparente, silenzio. Guardo in basso, accenno un sorriso verso la neo eletta nonna del mese ed ascolto una voce chiara e nitida da qualcuno davanti vicino al conducente. “Che traffico, che casino… che schifo di governo”. Si è vero, che schifo. Uno stupendo e comodo schifo.

“Scusi scende alla prossima?”

martedì 3 dicembre 2013

Chiedere scusa


Scusa. È una semplice parola spendibile in una moltitudine di occasioni. Mi viene in mente quando si chiede un’informazione, quando si fa un errore di distrazione, quando si commette un atto irrispettoso.

«Scusi, che ore sono?»

In generale, almeno per quello che credo, il chiedere scusa deve essere legato ad un atto di umiltà, di consapevolezza dell’errore o del gesto compiuto. D’accordo, non necessariamente ci deve essere un pentimento legato a chissà cosa, ma comunque quello “scusi” dovrebbe essere ancorato al sincero desiderio di invocare perdono per un disturbo –seppur minimo– arrecato.

Ben altro caso è quando si chiede scusa in seguito ad un tradimento d’amore, o ad una grave dimenticanza.

Disgraziatamente, oggi questa parola è inflazionata, abusata, ridicolizzata e la si è resa orfana del suo legame imprescindibile con quel sentimento di pentimento.

Immaginiamo una persona che passa con il semaforo rosso e poi, resosi conto che stava per uccidere un suo simile, chiede scusa (vi assicuro che già è tanto!).

In questo caso, nella testa di chi la pronuncia, quella parola conferisce il perdono a peccatis suis, scagionandolo completamente da ogni legame con la leggerezza commessa. Non che sia sbagliato chiedere scusa, tutt’altro, ma sembra quasi che ogni atto è ammesso purché poi si chieda scusa.

In maniera ancor più evidente, questo tipo di logica emerge quando a chiedere scusa è il politico, amministratore o funzionario pubblico di turno.

«Ho rubato, chiesto e dato tangenti, speculato, speso denaro pubblico per fini privati, ho contraffatto le schede elettorali. Chiedo scusa agli italiani.»

Davvero quel chiedere scusa ha un significato?

È una parola vuota, che si è diffusa sostituendo quella originale.

Ed è un vero peccato! Perché, significati religiosi a parte, il chiedere scusa, chiedere il perdono, è un atto importante a livello sociale, nella famiglia quanto nello stato, purché fatto realmente con sincerità, dispiacere e cognizione del fatto che l’errore commesso non sia dovuto ad un comportamento irrispettoso o disonesto reiterato e consapevole.

Chiedo pertanto la riabilitazione delle scuse, quelle vere, quelle fatte con il cuore, quelle che, una volta fatte, ci inducono a non sbagliare più.

Chissà, forse scopriremmo tutti come sia gratificante chiedere ed accettare scuse, con il fine di migliorare la nostra vita e di quelli che ci sono intorno.

Suona evidentemente come un’utopia?

Chiedo scusa, sinceramente, ma in fondo, è bello credere che non ci siano limiti per l’evoluzione dei rapporti umani.

venerdì 22 novembre 2013

Lonely People (Part II)


Poche cose ho capito fino ad ora, poche davvero. Una però mi è chiara, stampata bene in mente: viviamo in un mondo di persone sole. Ciò che più stupisce è quanto per ognuno di noi le soluzioni per stare insieme si moltiplichino per poi svanire improvvisamente.
Il tono con cui sto scrivendo non è assolutamente pessimistico, le mie sono semplici considerazioni su quanto intorno accade. La cosa divertente è che anche le persone più attente, quelle che credono di non essere sole in verità si perdono, alla fine, nella stessa direzione.
Gli applausi dagli spalti, immaginari, dopo un po’ non danno più soddisfazione. Non potrebbe essere altrimenti.
Proprio in quel momento coloro che conosciamo o crediamo di amare, beh, si allontanano. Capita. Più di una persona si riempie la bocca parlando di una società “Liquida” in cui parole come “Valori” e “Comunità” non hanno più senso di esistere. Almeno non con l’accezione che abbiamo inteso fino ad oggi. Forse.
Col tempo prendiamo consapevolezza che le idee che abbiamo in testa, in fondo, non sono poi tanto geniali. Eppure le stesse, per lungo tempo, sono servite ad accrescere il pensiero che tutto (prima o poi) sarebbe stato condiviso, vero, mitico. Per tutti.
Cammino per la strada e vedo tante persone, oggi come ieri, sorridere. Non dietro però la maschera che vestono ogni mattina. Di questo stiamo parlando.
Perché ad esempio rincorrere il successo pur perdendo quello che più conta?
Perché cercare di sembrare sempre ironici, divertenti, spigliati?
Perché non ascoltare chi si ha vicino?
Perché non credere più nelle persone?
L’immagine che ho davanti a me, quando penso a tutto questo, è quella di tanti cristalli nell’aria pronti a riflettere ognuno una moltitudine di luce. Riflessi, senza un obiettivo reale.
Siamo belli, siamo vincenti, siamo forti, fintanto che di benzina ne rimane nel serbatoio.
Viviamo e brilliamo di luce, anche solo per un istante, magari per il nostro video caricato su Facebook oppure per il nostro pensiero con un numero imprecisato di retweet. Di questo ormai ci nutriamo ed è questo che andiamo cercando.
E pensare che non più di qualche anno fa l’importante era mettere la faccia, giù in Piazza.
Bastava un mazzo di carte ed anche la fatica accumulata nell’arare i campi, nell’uso dell’erpice, della vanga… beh, tanto bastava per far svanire ogni stanchezza.
Si camminava fino ad arrivare alla propria casa e tutto il resto poco importava. Non ho mai visto mio nonno sentirsi abbandonato pur essendo “solo” davanti ai problemi della famiglia. Eppure quello che contava evidentemente era altro: la stanchezza delle braccia, l’odore dell’oliva appena raccolta, dell’erba tagliata, del grappo d’uva al sole. Tutto ciò aveva effetti diversi dall’odore di plastica che i nostri ipad emanano. Quello che rimaneva però era moltissimo pur non essendoci le luci di Londra o New York. Quello che rimaneva era l’idea dell’ultimo raggio di sole sul proprio terreno lavorato. Sulla propria fatica.
Oggi, persi dietro le nostre iniziative, non abbiamo più un luogo in cui incontrarci veramente. Dove poter guardare negli occhi il proprio interlocutore o ascoltare la sua voce.
Ci perdiamo dietro noi stessi, dietro le nostre cazzate, pieni di cose che non ci appartengono. Ci ritroviamo soli, nel mezzo od alla fine della nostra vita, senza nemmeno avere un Uomo o una Donna da amare veramente.
In fondo amare non è quanto la solitudine dovrebbe insegnarci a fare?
Continuiamo a cercare la Persona della vita correndo dietro aquiloni sempre più alti in cielo. Quello che conta però siamo sempre “Noi stessi”. Non è così?
Il problema è che poi, una volta afferrato il più alto degli aquiloni, dopo avere detto a se stessi “ce l’ho fatta”, non rimane che guardarsi indietro e accorgersi che siamo soli, con lo spago in mano e l’aria del vento che non soffia più.
In quel momento, davanti al risultato dei nostri impegni, capiamo che in fondo al tavolo siamo rimasti soli. Con il mazzo di carte in mano.

martedì 19 novembre 2013

Post-it



Un breve racconto emozionale, che coinvolge la mente e diversi sensi.

Istruzioni per la lettura:


1.       Ascoltare in sottofondo la Canzone: First Fire, Bonobo. http://www.youtube.com/watch?v=1E2OZTRmNxk&list=PLK6CFF5XENOmeKZ4LtrU9CuUyHqsMc9Dl


2.       Dare uno sguardo al Graffito: Leviathan, Blu. Kreuzberg.

https://www.google.it/search?hl=it&site=imghp&tbm=isch&source=hp&biw=1280&bih=907&q=Leviathan%2C+Blu.+Kreuzberg&oq=Leviathan%2C+Blu.+Kreuzberg&gs_l=img.3...529.529.0.1312.1.1.0.0.0.0.146.146.0j1.1.0....0...1ac.1.31.img..1.0.0.FIrm1Nn24qs


3.       Pensare al Colore: bianco.


4.       Leggere quanto segue:



Ho iniziato a scrivere biglietti sulla mia vita. Credo sia il formato più giusto, più vicino a quanto mi è accaduto. Nessuna pagina impegnativa o diario personale. Solo Post-it, nient’altro.

Post-it numero uno della giornata: Quanto tempo dovrà passare?

Trascorro le mie giornate tra i ricordi di quello che per lungo tempo sono stato. Un uomo affermato, convinto dei propri mezzi e delle proprie azioni. Non ho mai fatto il passo più lungo della gamba. Non ho mai azzardato e non sono mai andato più in là delle mie possibilità. Ho accettato le cose che mi sono venute, ho ringraziato per ogni dono ricevuto dall’esistenza. Un lavoro, una famiglia, una realizzazione.

Post-it numero due: Essere licenziato  - cosa diavolo può voler dire dopo 20 anni di contributi?

Laura ora è lontana, abita sempre nella nostra casa. Ho iniziato a nascondermi tra la gente prima che prendesse la metro per andare al lavoro. Lei che ancora uno ne ha. La nostra vita è cambiata da quasi due anni ma non riesco a togliermi dalla testa che le cose potevano andare diversamente. Continuo, ogni giorno, a chiedere a me stesso come sarebbero andate le cose se avessi avuto più attenzioni. Più di quelle che davo. Continuo a chiedermi quanto i miei figli possano ancora  riconoscersi nei miei occhi.

Post-it numero 3 di questa giornata di novembre: Sono un ramingo.

Continuo ad affiggere i miei pensieri su questa carta gialla, tentando di appiccicarli sui muri della stazione. Spero che Laura riconosca la mia grafia o che magari questi fogli striminziti attraggano l’attenzione di qualche passante. Sono un ingenuo, questo è il problema. Non riesco a celare, a me stesso, il mio abbandono. Mi guardo e non è tanto nella barba incolta, nei vestiti lisi comprati in un’antica età dell’oro. Il problema è prendere consapevolezza che le cose cambiano e non sempre in meglio.

Post-it numero 4: Pensa positivo

Una signora, probabilmente rumena, si avvicina nel mio angolo fregandosene del puzzo che i pavimenti emanano e mi lascia una moneta, sonante, di un euro. Non ci faccio più caso. Come per la propria verginità, accettata la prima elemosina le altre vanno giù e neanche te ne accorgi.

Post-it numero 5: Pensa positivo ma non sperarci troppo

È questo il senso delle cose? È questo quanto devo aspettarmi? In lontananza scorgo un volto e riconosco gli occhi di una ragazza uguali ai miei. La sua adolescenza ormai al termine è nascosta da una maturità acquisita sul campo.

Post-it numero 6: Pensa positivo e mantieni la calma. Non scapp….

La sua voce mi chiama. Mi prende per una braccio e mi accompagna fuori nel parco senza farmi finire di scrivere. Non proferisco parola, non servirebbe. Lascio cadere pezzi di carta a terra  mentre ci guardiamo, riconoscendoci l’uno nell’altra. Il suo nome è Chiara e probabilmente mi vuole bene. Questo importa.

Mentre sento chiamarmi, ancora una volta, con il mio nome mi guardo attorno e vedo che tutti i miei biglietti non sono altro ormai che carta calpestata a terra. Quasi non si riconosce più nemmeno una parola.

Esco alla luce e la sua voce mi grida, sottovoce: Forza Papà.

Le macchine continuano intanto a correre.

Post-it numero 7:

venerdì 15 novembre 2013

Sola


Un breve racconto emozionale, che coinvolge la mente e diversi sensi.

Istruzioni per la lettura:


1.  Ascoltare in sottofondo la Canzone: Shine on you crazy diamond, Pink Floyd. https://www.youtube.com/watch?v=R0sw2CgysWY

2.  Dare uno sguardo al Quadro: Sole del mattino, Edward Hopper.



3.  Pensare al Colore: grigio scuro.


4.  Leggere quanto segue:


«Vattene, sei solo un povero idiota! Bastardo!» Gli avevo urlato contro. Era solo l’ennesima volta che accadeva una scena del genere. Non ci eravamo resi conto che ricoprirci di insulti l’un l’altra era diventata quasi un’abitudine, un gesto svuotato dei suoi significati, tante volte l’avevamo vissuto. Eppure mi lacerava l’animo procurandomi ferite che avrebbero lasciato piccole cicatrici per sempre.
Trascinavamo il nostro rapporto in modo patetico. Se c’era stato vero amore, in quel momento era ridotto ad un pallido riflesso impercettibile.
Eravamo usciti quella sera per stare insieme, per ritrovarci, per dirci quanto ci amavamo, per sorridere sotto la luna.
«Ti amo.» Lo avevamo detto entrambi. Forse senza consapevolezza della menzogna. Ma tutto era come al solito. Il rancore permeava ogni nostra interazione. Ci davamo colpe su colpe, rispondendo con scuse ad accuse, con offese a provocazioni. Fu sufficiente una banalità, una scintilla in un enorme mucchio di sterpaglia secca sotto vento.
Il cambiamento fu repentino nella nostra conversazione. Non ci interessò di essere in mezzo alla strada, con altre persone che ci camminavano intorno.
Era chiaro che il nostro rapporto era concluso, eppure non eravamo disposti ad accettarlo, non so perché. Ci prendemmo a male parole. Rimproveri e critiche sputate ad alta voce.
«Vattene, sei solo un povero idiota! Bastardo!» Dissi ad un certo punto. Giocavamo sullo stesso piano. Rispose annuendo. Si voltò e se ne andò.
Non lo avrei più rivisto in vita mia.
Rimasi immobile senza punti di riferimento. Scoppiai in lacrime lasciando libere le emozioni che avevo trattenuto fino a quel momento per non mostrarmi debole. Eppure quelle parole erano uscite con convinzione dalla mia bocca. Ripensai alle serate passate insieme, alle domeniche al mare, al suo sorriso, al suo odore. Era finita.
Ero ancora ferma con il volto rigato di piccole scie umide di pianto.
La mia testa si perse in un vortice di pensieri confusi mentre mi incamminai verso casa. Dentro vi trovai foto, lettere, regali e mille altri riferimenti a quella persona che non avrei mai più rivisto. Piansi di nuovo con l’intenzione di abbandonarmi all’ineluttabile fine che mi attendeva.
Mi addormentai vestita nel silenzio della solitudine della mia casa da single.

Avevamo fatto la cosa giusta.

venerdì 8 novembre 2013

Donne, uomini, rispetto e parità


Io, lo chiarisco sin da subito, sono un uomo che non ha vissuto l’epoca del femminismo, quella delle lotte, della parità desiderata, quella del “il corpo è mio e lo gestisco io”.
Però vedo quello che succede adesso.
La prima cosa che mi viene da pensare sul tema è che ci sono contraddizioni. Sì, contraddizioni. Da un lato so che ci devono essere la parità e le pari opportunità tra uomini e donne. Sulle offerte di lavoro c’è scritto infatti ricerca aperta ambo i sessi come da decreto bla bla bla…
Una donna capo del governo? Perché no. A capo del senato? Perché no. Donne nello sport, nella vita di tutti i giorni, negli incarichi più prestigiosi, stessi stipendi ed opportunità. Nella realtà dei fatti non è così. Ma dicono che la strada è quella giusta. Quote rosa e donne in carriera. Avanti così!
Poi però, c’è tutta una realtà sommersa che tutti conoscono, avallano, accettano e perseguono, fatta di corpi nudi, di ingiustizie, di stipendi più bassi e di banalizzazione. La cosa peggiore è che spesso le donne sono pari agli uomini (in questo caso sì!) nel considerarsi su un altro livello.
Dico subito che le diversità ci sono e devono  essere accettate. Ma non è questo il punto.
Una cosa veramente assurda è il dover sempre rapportare le donne all’estetica.
La Merkel è brutta, la Bindi altrettanto (poi sempre a mettere ‘sto “la” prima del cognome…). Hai visto la Brambilla aveva le cosce di fuori?
Mica ci importa niente se Bersani o Alfano sono belli o brutti. Non è discriminazione questa? Non è fare il solito riferimento al fatto che l’uomo è cacciatore e la donna è un corpo-preda?
Altrettanto assurdo è quello che succede quando ci sono le notizie riferite ad eventi drammatici di morti o feriti. Cinquanta morti, di cui venti tra donne  e bambini. “Donne e bambini”? Cos’è, la categoria degli indifesi? Come se le donne non fossero autosufficienti o meno capaci nella sopravvivenza. In un’epoca in cui la tecnologia fa tutto poi…
Allo stesso modo, quando si parla di malviventi: la banda era composta da dieci criminali, di cui due donne. Ma che ci importa? Se una persona (PERSONA) è brava, competente, malavitosa, eroica, infima, delinquente, omicida, disponibile, importante, banale o quello che volete, il sesso ha poca importanza.
Eppure stiamo sempre lì a sottolinearlo.
Altri stereotipi: l’uomo offre la prima cena insieme. L’uomo tiene la porta aperta alle donne che attraversano la soglia. La donna ammicca e fa vedere le forme. L’uomo è forte e la donna decide. Alcuni retaggi (per carità, nulla di grave) ma che nascondono un mondo di convinzioni.
La percezione del sesso in molte persone: è l’uomo che ha un fine, la donna è un mezzo. Le conseguenze le vediamo nelle storie di tutti i giorni, che raccontano un mondo di ragazzi disorientati sul tema uomo-donna: stupri, violenza, baby-prostituzione e sexting, l’ultima frontiera della banalizzazione e distruzione del rispetto e dell’amor proprio.
Ma veramente vogliamo che sia così?
È vero, siamo fatti in modo diverso, ma basta davvero con queste storie.

Donne, ribellatevi allo stereotipo di donna.
Uomini, ribellatevi allo stereotipo di uomo.
Persone, costruitevi davvero un futuro senza discriminazioni.

giovedì 31 ottobre 2013

Il tempo libero è un valore aggiunto?


Potrei iniziare da una di quelle frasi ad effetto tipo: “Voi avete gli orologi e Noi abbiamo il Tempo”. Figo, sì… davvero… ma Voi chi? Voi occidentali, business woman/man, body trainer, politici, impiegati, scontenti, anziani, bolognesi, alieni? Voi chi? E soprattutto, dire di avere il Tempo, quello con la “T” maiuscola, non è un po’ eccessivo? Forse no, dato il successo del detto, ma questa è un'altra storia. Avere Tempo dalla propria è realmente un valore aggiunto? Sappiamo davvero impiegare il Nostro tempo, qualora ci sia data l’opportunità di viverlo liberamente? Circondati da una costrizione latente il nostro impiego quotidiano è dettato da quel continuo tic-tac di azioni e programmazioni che ci rende apparentemente schiavi. La scuola, il  lavoro, la piscina dei piccoli, sistemare in cucina, fare la lavatrice, dormire. Anche quando dormiamo, sembra strano, non abbandoniamo il nostro tempo. Lo dilatiamo o lo accorciamo, in considerazione di ciò che sogniamo. La cosa divertente è che non saremmo in grado di vivere diversamente. Ad esempio, vi è mai capitato di sentire dalle persone che non possono prendere uno o più giorni di ferie perché non hanno organizzato nulla? Oppure quelle persone che, quando ci si vede per uscire, non fanno altro che chiederti il promemoria della serata? Che vuol dire ad esempio “a casa poi non so stare?” Perché dobbiamo occupare sempre il nostro tempo con qualche bugia dell’ultima ora? Personalmente credo di essere tanto invischiato nella faccenda che faccio fatica anch’io a credere di poterne venire fuori. Non vi nascondo che, per un po’ di tempo, non riuscivo a fare nulla che non desumesse dal mangiare tempo. Giornate intere trascorse a dare il tempo a qualcuno per avere poi la giusta ricompensa per mangiare e poi occupare nuovamente il mio tempo. Questa mattina ad esempio, essendo Sabato, ho deciso di scendere presto all’alimentari per cercare di liberare del “T” (da ora in poi lo chiamerò così). Il passo è breve, qualche minuto a piedi; ho imparato tanto sul “T” e lo apprezzo molto di più. Sono sceso dalla mia salumeria preferita. Improvvisamente capisco cosa vuol dire il vuoto pneumatico. Mi aggiro tra scaffali infiniti di cose buonissime e dolcissime. Inebriato da un po’ di tepore del mattino, tiepidamente allontanato dal  primo caffè della giornata, mi accingo al bancone della frutta. Scelgo e ancora riscelgo, nessuna presenza di “T” intorno. Credo di averlo fatto mio, poi improvvisamente mi avvicino al banco frigo: formaggi, affettati e quanto di più saporito per la mia gola. Ho quasi raggiunto il mio karma, intorno infatti vedo solo luce. Neanche le 09:00 (so che questo “T” lo sa) e capisco il senso più profondo del guadagnare “T”, o meglio di viverlo come valore. Arrivo al bancone della salumeria inebriato da afrori di asparago e pesca quando, il “T” di prendere il mio biglietto, mi fermo ad aspettare il mio turno. Davanti a me una simpatica Tina Pica de “noantri”.   Dall’altra parte un giovane, probabilmente precario, salumiere imberbe. Quello che accade ha dell’inspiegabile. Mi fermo ad ascoltare discorsi su cose incomprensibili quali: luoghi comuni, carovita, pensioni e via discorrendo. La ricorsività la fa da padrone mentre nel retro cranio penso da quanto la Signora è qui. La mia presenza evidentemente non è di peso anzi, il mio sguardo fisso non accelera un processo semplice quale l’acquisto di qualche affettato. Ecco allora che, passato qualche minuto (o almeno credo), inizio a guardare l’orologio. Ho liberato il mio spazio del mattino per cosa? Per stare qui? Mentre rifletto su questo, inizio a preoccuparmi delle mie preoccupazioni. E non è un gioco di parole il mio. Dico davvero. Di nuovo l’ha vinta “T”. Ho ripreso nuovamente a spazientirmi e, davanti all’ennesima citazione del figlio Gabriele, ho mollato la mia impresa e sono uscito. Carico di abbandono.

Sono tornato a casa  e seduto sul divano ho ripreso a guardare la TV, l’unico modo per capire quanto realmente sia importante avere del “T” libero. Ripenso a quanto mi sono sentito diverso, qualcosa del tipo: ”Ah, io non leggo giornali”. Vero. Mi sono immaginato davanti ad una di queste giovani peripatetiche del sabato sera a parlare di come la prossima guerra si terrà per l’acqua. Niente, non c’è stato modo, ho voluto far finta che tutto avvenisse semplicemente perché doveva. Del “T” mi interessa il giusto ormai, guadagnato o perso che sia. Sulla TV scorrono i titoli del telegiornale della mattina. Aprono le parole del presidente della camera: ”Italiani, non dobbiamo perdere tempo…”.
Ci risiamo.
Spengo la TV e lascio che “T” si riprenda quanto di proprietà.

venerdì 25 ottobre 2013

Lonely People


Questo titolo nasce in un momento in cui stavo ascoltando Eleanor Rigby e, mentre Father McKenzie stava scrivendo parole per un sermone che nessuno avrebbe mai ascoltato, ho pensato alla solitudine. Lonely People.
Un luogo comune dice che siamo sempre più soli, che anni fa c’era più solidarietà e si stava più tempo insieme. Oggi non si condivide molto e spesso non si conosce il vicino di casa, nonostante i 620 contatti su Facebook e i 1921 su LinkedIn.
L’esperienza della grande città mi dice che gli anziani, quando possono, si incontrano per giocare a carte e per parlare. I giovani parlano poco, molto di meno. È chiaro che la società si è evoluta in una direzione che ha teso ad isolare le persone e la tecnologia, in alcuni casi, ha eliminato il necessario contatto diretto. Ovviamente non è lo strumento sbagliato, è l’uso che se ne fa.
Fatto sta che ci sono molte persone che non hanno un vero gruppo di appartenenza con cui condividere giornalmente quello che vivono. Qualcuno a cui raccontare come va, qualcuno con cui sfogarsi, prendere una birra ghiacciata o vedere un tramonto sul mare. Spesso per fare queste cose non basta una moglie o un marito, serve altro. Un amico, un conoscente, un gruppo, qualcuno che non ti faccia sentire solo.
Nel dopoguerra, tanto era forte il desiderio di ripartire che c’era un energico sentimento di comunione di intenti e di obiettivi. Forse un lungo periodo di benessere ha portato le persone a guardare solo il proprio orto, a voler incrementare il proprio patrimonio perdendo il gusto della condivisione e della felicità dello stare insieme a guardare il tempo che passa.
Poi le varie crisi (finanziarie, morali, etiche e religiose) hanno aumentato le difficoltà di coloro che probabilmente non hanno molto tempo per porsi altre questioni che potrebbero impedire di rimanere attaccati al sogno del benessere perpetuo.
Oggi è disgraziatamente così. Lo vedo con le persone che incontro tutti i giorni e che, anche se non so come si chiamano, saluto puntualmente. Una percentuale prossima a cento o non mi risponde o mi risponde a mezza bocca. E se non c’è nemmeno il saluto figuriamoci il resto.
È un peccato perché la condivisione dà un senso a molte cose e i contatti umani ci rendono persone migliori anche per il solo fatto di farci svagare, sognare e divertire.
Ogni essere umano ha bisogno di dare e ricevere amore (ok, l’ha già detto qualcun altro!), intendendo amore in un senso esteso, anche come attenzione, cura e condivisione.
Affrontare questi temi sembra spesso sinonimo di retorica di basso spessore alla “vogliamoci bene tutti” o “la guerra è brutta e viva la pace”. Il pericolo c’è. Ma non voglio dire che dobbiamo creare una società diversa basata sull’altruismo e sull’amore.
Nessuna utopia del genere. Più semplicemente siamo una civiltà di persone sole, più sole di quanto non fossimo in altre epoche e forse la vera crisi di valori che vediamo nel mondo ogni giorno è causa e conseguenza di questa solitudine.

Vista l’apertura di questo post, non posso che chiudere con All you need is love e Life is very short, and there's no time for fussing and fighting, my friend.

domenica 20 ottobre 2013

Lei non sa chi sono Io!


Forse non mi ha riconosciuto, ma io sono…
Quindi, in qualche modo, da qualche parte, in qualche senso, esco dalle regole.
Sono l’attore che ha recitato nella fiction andata in onda il 15 agosto scorso alle 16:15! Sono la figlia del Direttore, io. Sono stato eletto Mister università. 
Ho fatto il grande fratello, mio zio è Sottosegretario, ho ballato alla festa del paese con uno del Bagaglino.
Ma quanti sono quelli che pronunciano la fatidica frase? Di fronte all'Autorità, ad un ingresso riservato, in fila chissà dove. Come se essere qualcuno esuli dal rispetto dalle regole.
Quante volte abbiamo sentito che cantanti, politici, uomini dello spettacolo, parenti e affini hanno prevaricato alcune regole solo in nome del loro stesso Nome. Non pagare il conto al ristorante, approfittarsi della propria posizione, ricevere agevolazioni non dovute. Tutto non dovuto.
E questo assume ancor più (se possibile) le fattezze del grottesco quando a parlare è qualcuno che non ha alcun merito.
Detengo il titolo di campione della corsa dei sacchi da dieci anni, ho fatto un provino per un reality. Poi quando c’è di mezzo la televisione, l’esaltato di turno diventa all'improvviso super partes, senza regole, al di sopra del bene e del male.
Le Iene hanno mostrato alcune volte questi soggetti prigionieri del loro personaggio fino a credersi veramente persone importanti per l’evoluzione umana.
È lì, quando trovi il vigile che sta facendo le multe, che ti ha lasciato un fogliettino con scritto 250 euro perché hai parcheggiato con le ruote fuori dalla striscia, quando lo stesso vigile di fronte alla macchina parcheggiata in doppia fila, che occupa la carreggiata, con la musica a cannone e che ostruisce l’accesso al posto dei disabili, vede il calciatore di turno e dice dai, se mi fai l’autografo non fa niente, è lì, che ti accorgi che il "lei non sa chi sono Io!" è veramente pazzesco.
Non so se sia più pazzesco nella sua essenza o nel fatto che qualcuno lo pronunci davvero.

E per forza, tu che leggi, non puoi che essere d’accordo con me. Come? Non sai chi sono io?

Emiliano Sclame, ricorda, Emiliano Sclame.