Miyajima

Miyajima

mercoledì 18 dicembre 2013

Libertà


È un tema vasto, difficile e delicato. Ragionavo però su un fatto. Se consideriamo la nostra società odierna e la confrontiamo con una di duemila anni fa vediamo che, da un certo punto di vista, siamo meno liberi. Poiché la complessità, soprattutto a livello globale, è aumentata in modo vertiginoso e le possibilità di uscire dal sistema sono diminuite in modo drastico. Mi spiego meglio. Oggi quasi non è possibile ignorare le leggi (almeno alcune), non essere identificabili, vivere in modo isolato o decidere di fondare una nuova città con nuove regole. Probabilmente, tutto questo era più semplice duemila anni fa. La domanda successiva è: chi sta meglio? Viste le mie aspettative di vita, la qualità della stessa, il fatto che non debba preoccuparmi di guerre o carestie e che ho accesso ad una quantità di agevolazioni (cibo, possibilità di viaggiare, di studiare, di divertirmi…) mi fa dire che scelgo questo tempo.

Ora, il passo speculare del ragionamento (semplicistico, per carità) è: supponiamo che tra cento, mille, diecimila anni (fate voi) il progresso porterà a migliorare le condizioni della vita a tal punto che non esisteranno guerre, povertà, conflitti e che il mondo sarà popolato da una massa di persone felici e spensierate, ma poco libere.

Lo spunto è Il Mondo Nuovo di Huxley, in cui ogni essere umano, da embrione a defunto, segue dei binari ben precisi a seconda della propria classe sociale di appartenenza, risultando anche felice di essere ciò che è. Una buona dose di “soma” e di intrattenimento consentito e la vita scorre senza problemi (addirittura senza vecchiaia).

Quindi, in questo ipotetico futuro, l’assenza completa di libertà, di poter decidere della propria vita ha portato alla felicità e alla risoluzione di una gran parte dei problemi dell’umanità.

Verrebbe da applicare un banale sillogismo: io sto meglio di un antico romano perché sono più felice, ho più possibilità, salute…etc. seppure sono meno libero.

Allo stesso modo, un ipotetico abitante del Mondo Nuovo sta meglio di me perché è più felice, ha più possibilità, salute…etc. seppure è meno libero.

Non sembrano stare così le cose. Per gioco ho chiesto l’opinione ad alcune persone: sarebbero pronte a sacrificare totalmente il libero arbitrio per la felicità globale? Essendo peraltro inconsapevoli dell’assenza di arbitrio e, quindi, senza sentirne il peso?

La risposta è stata no, no, no. Unanime.

Quindi, dove sta il confine tra il caos e una società organizzata a tal punto da distruggere il libero arbitrio? Qual è il modello che coniuga perfettamente la libertà con l’opportunità, il singolo con il collettivo, il libero arbitrio con le scelte comuni. Non sono sicuro che il nostro mondo si stia muovendo nella direzione giusta. Probabilmente il giusto compromesso, o qualcosa che ci si avvicini molto, è ancora lontano da raggiungere e, forse, la nostra stessa natura ci impedirà di raggiungerlo.

Chiudo con l’immagine di Cypher di Matrix che mangia una succulenta bistecca creata ad arte dalle macchine e sarebbe felice di vivere nell’ignoranza del mondo fittizio che però è in grado di regalargli tante belle emozioni che non sono altro che impulsi inviati al cervello e non vissuti veramente.

lunedì 9 dicembre 2013

I problemi della società. Solo colpa delle istituzioni?


Problema: avere un problema non è necessariamente colpa di qualcuno o qualcosa. Potremmo avere un “Problema” ad esempio per il solo fatto di essere noi stessi. Di conseguenza, visto che “siamo” necessariamente noi stessi, perché il resto del mondo deve continuare a rompere fin nel profondo? E in più, perché là dove non ci siano poi tanti temi da approfondire oppure tante considerazioni da sostenere non facciamo altro che dire che è colpa di questo o di quello? OK, non mi nascondo, sono cresciuto con il concetto di colpa ben radicato nel profondo del mio sentire. Qualcosa come: “Attento che poi prendi il raffreddore!” oppure “Guarda che poi se cadi è colpa tua e di nessun altro” o ancora “Tesoro è colpa tua se hai saputo dare più attenzioni a quella di quante ne abbia date a me”. Ebbene, partendo da questo presupposto di colpa, riusciamo a individuare quello che in questo momento ho necessità di esprimere. Non è un problema degli altri, è un problema nostro. Certamente. Ci lamentiamo continuamente di quello che vediamo la sera davanti allo schermo, ci lamentiamo perché tanta corruzione non è poi sopportabile, perché in fondo niente di quello che accade ci sembra appartenere. In fondo non ci somiglia no? Navigando come un disperato, seguitando a tamburellare sul telecomando nell’attesa di trovare quel tasto che sicuramente mi porterà alla verità delle cose, incappo in una di quelle trasmissioni in cui i politici si divertono a litigare e cercano di parlare dei problemi degli altri (addirittura di un Paese!) quando invece si palesa come l’unico loro interesse sia legato, nella migliore delle ipotesi, alla propria progenie. Non resisto, l’aspirina non fa effetto e nemmeno l’aulin che ho ingurgitato accenna un timido effetto lenitivo. Nonostante ciò, di fronte all’ennesima promessa di riscatto e di ripresa, sento il bisogno di cambiare aria. Precipitosamente mi rivolgo verso il primo specchio della casa, corro fin nel bagno e prima scoperta: lo specchio è pulito e per nulla appannato. Reazione: sconcerto puro! Ecco vedete, i problemi  (anche quelli attesi) possono anche (molto raramente) non manifestarsi. Inizio a crogiolarmi su quanto la mia attività e la mia attenzione verso i particolari mi renda un uomo nuovo. Si, esclamo al mio cuore. Tutte quelle menate zen sono vere, ho iniziato a capire che il primo passo nasce da me ed ecco, tutto può migliorare con piccole azioni. Pienezza d’animo, piena realizzazione, quasi metempsicosi. Mi riprendo però dall’idea di una produzione di koan a riguardo. Lascio la verticale su come si debba o si possa essere. Lascio il tempo scorrere. Passano alcuni secondi e scopro che due: lo specchio non è poi tanto pulito quanto credessi. In fondo non ci avevo nemmeno tanto creduto. Sconfitta, ma nemmeno poi tanto. Quasi pareggio. Tre: la persona davanti allo specchio è sicuramente la migliore. Meglio di quanti sono seduti sugli scranni del potere, delle decisioni, meglio sicuramente di quanto possa immaginare il miglior movimento politico, di origine comica o meno, di questo Paese Italia. Insomma, diciamo la verità, chi di noi guardandosi a fondo non trova poi il meglio che questo suolo Mediterraneo può (possa) offrire? Alla fine del percorso svaniscono tutte quelle fastidiosissime idee di disgusto, di ripudio, di odio verso ciò che non funziona.  “Ah, maledetti Voi. Governo ladro!” Certo si. Vero, credo sia proprio così. Continuando però a guardare nello specchio noto che non posso mentire più di tanto.

Vero, in fondo quella persona davanti  a me sull’autobus è sicuramente anziana (la veneranda età si manifesta certo dalle rughe e dal generale avvizzimento della pelle, non meno però dall’abbigliamento che non lascia scampo a immagini peterpanesche). Sicuramente la signora è in piedi mentre io sto con il sedere spaparanzato sopra questo fantastico sedile deturpato da acronimi e simboli celtici. Sicuramente uno di noi due ha più bisogno dell’altro di mutare la propria posizione. Sicuramente uno di noi due ha bisogno di capire come possa essere possibile arrivare a tanto, se questa poi (credo di pensarlo solo io questo) debba essere ogni santa mattina la mia personale storia. Lo stop della fermata mi lascia trascinare il busto in avanti con un vago moto inerziale, la signora imperterrita davanti ai miei occhi ha completamente abbandonato l’idea del perché e del come. Ebbene, cosa mi spinge a non alzarmi? In fondo posso in qualsiasi momento, lo so. Sono sicuro, lo posso fare. E poi c’è da dire che probabilmente la nonna (o presunta tale) non ne ha neanche bisogno. Poi l’inaspettato, si rovescia la busta con le 4 mele prese al mercato, una croce di d’aglio si lascia cadere quasi fin sotto la mia seggiola, intorno qualcuno cerca invano di mimare un accenno di aiuto. Niente. Immobilità. Solo in questo momento nasce l’esigenza, da parte di un temerario vicino a me, di porgere il proprio trono, guadagnato probabilmente attraverso una sacra prenotazione. La signora, esterrefatta da tanta magnanimità, sicuramente non più abituata a tanta umanità, sorride e come nulla fosse prende a parlare con una sua coeva, che le siede immediatamente dietro e che fino a quel momento sembrava appartenere ad un altro spazio o dimensione. Le uniche voci che separano la mia personalissima vergogna da tutto il resto sono lamenti che squarciano il mio, apparente, silenzio. Guardo in basso, accenno un sorriso verso la neo eletta nonna del mese ed ascolto una voce chiara e nitida da qualcuno davanti vicino al conducente. “Che traffico, che casino… che schifo di governo”. Si è vero, che schifo. Uno stupendo e comodo schifo.

“Scusi scende alla prossima?”

martedì 3 dicembre 2013

Chiedere scusa


Scusa. È una semplice parola spendibile in una moltitudine di occasioni. Mi viene in mente quando si chiede un’informazione, quando si fa un errore di distrazione, quando si commette un atto irrispettoso.

«Scusi, che ore sono?»

In generale, almeno per quello che credo, il chiedere scusa deve essere legato ad un atto di umiltà, di consapevolezza dell’errore o del gesto compiuto. D’accordo, non necessariamente ci deve essere un pentimento legato a chissà cosa, ma comunque quello “scusi” dovrebbe essere ancorato al sincero desiderio di invocare perdono per un disturbo –seppur minimo– arrecato.

Ben altro caso è quando si chiede scusa in seguito ad un tradimento d’amore, o ad una grave dimenticanza.

Disgraziatamente, oggi questa parola è inflazionata, abusata, ridicolizzata e la si è resa orfana del suo legame imprescindibile con quel sentimento di pentimento.

Immaginiamo una persona che passa con il semaforo rosso e poi, resosi conto che stava per uccidere un suo simile, chiede scusa (vi assicuro che già è tanto!).

In questo caso, nella testa di chi la pronuncia, quella parola conferisce il perdono a peccatis suis, scagionandolo completamente da ogni legame con la leggerezza commessa. Non che sia sbagliato chiedere scusa, tutt’altro, ma sembra quasi che ogni atto è ammesso purché poi si chieda scusa.

In maniera ancor più evidente, questo tipo di logica emerge quando a chiedere scusa è il politico, amministratore o funzionario pubblico di turno.

«Ho rubato, chiesto e dato tangenti, speculato, speso denaro pubblico per fini privati, ho contraffatto le schede elettorali. Chiedo scusa agli italiani.»

Davvero quel chiedere scusa ha un significato?

È una parola vuota, che si è diffusa sostituendo quella originale.

Ed è un vero peccato! Perché, significati religiosi a parte, il chiedere scusa, chiedere il perdono, è un atto importante a livello sociale, nella famiglia quanto nello stato, purché fatto realmente con sincerità, dispiacere e cognizione del fatto che l’errore commesso non sia dovuto ad un comportamento irrispettoso o disonesto reiterato e consapevole.

Chiedo pertanto la riabilitazione delle scuse, quelle vere, quelle fatte con il cuore, quelle che, una volta fatte, ci inducono a non sbagliare più.

Chissà, forse scopriremmo tutti come sia gratificante chiedere ed accettare scuse, con il fine di migliorare la nostra vita e di quelli che ci sono intorno.

Suona evidentemente come un’utopia?

Chiedo scusa, sinceramente, ma in fondo, è bello credere che non ci siano limiti per l’evoluzione dei rapporti umani.