Miyajima

Miyajima

mercoledì 19 febbraio 2014

Ilaria


Rimane lontano il ricordo del vento lungo le spalle. Quasi l’avevo dimenticato.

“Ilaria puoi venire qui un secondo?”

Il suo nome lo ricordo anche se non mi appartiene più e a volte sembra non essere mai appartenuto alla mia vita. Ripercorro con religiosa pazienza ogni momento che la memoria riporta all’attenzione.

“Ilaria mi stai ascoltando? Riesci ad essere sveglia questa mattina? Ti sto chiamando da più di cinque minuti!”
“Arrivo, davvero. È che ho un po’ di male al petto…” 

Come faccio a spiegare che nella mia testa non alberga più niente se non un volto? Più che un volto, forse uno spettro. Ho sempre pensato, in verità, che certe cose accadessero a donne deboli;  eppure mi ritrovo invischiata anch’io ad avere pochi motivi per andare avanti.

“Comunque, ti dicevo, va sistemata la merce che sta in magazzino. Poi, quando hai finito di là vieni qui a darmi una mano con la vetrina. Dobbiamo sistemare meglio l’esposizione e poi… Ilaria? Ma che hai?”

Un improvviso senso di vomito mi giunge fino alla gola. Una ragazza come me non dovrebbe avere di questi problemi. Non sono più un’adolescente che si perde inseguendo un amore impossibile, ma che devo fare. Questo è quello che succede quando non si è poi tanto forti. Così penso almeno. Cosa posso fare? l ricordi corrono veloci all’altra sera. Un ritorno a casa come tanti altri, una nottata trascorsa senza tante pretese. E pensare che non più di qualche mese fa avevo bisogno nient’altro che di lui… senza soluzione di continuità direbbero le persone brave…

“Niente, assolutamente niente. È solo che non mi sento tanto bene, ho un po’ di dolore al petto. Credo che oggi sia meglio per me andare a casa.”
“Se non ti senti bene non ti preoccupare, continuo da sola e più tardi arriva Giulia. Vai pure.”

Liquidata. Come sempre. Un’altra volta.
Altri ricordi si susseguono uno dietro l’altro e più si rincorrono e più ho voglia di andarmene da qui. Mi allontano, vedo lontano la mia auto e improvvisamente mi appaiono ricordi di tanto tempo fa, non riesco nemmeno ad immaginare quanto.
Avverto odori che non sento da secoli, rivedo nitidamente la luce riflessa del vino sulla tovaglia macchiata. Le sue mani, i suoi occhi.
Ilaria, ora non ho nient’altro che te.
È strano pensare che, tornando sola verso le mie mura domestiche, non riesca ad avere piena cognizione di quanto sia accaduto. Troppe volte ho visto davanti alla porta di casa la persona, anche se non credo possa essere definita tale, che ha generato tutti i miei mali. Ho trovato su quella soglia le mie paure, i miei rimpianti, le mie allucinazioni. Ho trovato anche un uomo a supplicarmi di tornare con lui, a spiegarmi come io sia l’unica.
Esco per strada e con difficoltà mi avvicino alla mia auto, sembra quasi fatta. Ancora una volta sopravvissuta.

“Signorina, si sente bene? Le serve aiuto? Signorina riesce a sentirmi?”
“Sì, tutto bene, è solo che non riesco ad aprire la portiera dell’auto.”
Ilaria non posso vivere senza di te.

“Signorina, lei sta tremando, mi dia la mano… Signorina?”

Crollo liberamente a terra. Tocco il suolo ma sento scomparire sotto di me l’asfalto. Ogni  livido sul mio corpo è come una sanguisuga. Sento ancora portarmi via il sangue dalle sue mani. Sento ancora la mia immobilità.
Mentre tutto questo accade, credo davvero di essere unica, la sola ad aver avuto la forza di resistere aggrappandomi alla voglia di vivere. Tutte le altre evidentemente non ce l’hanno fatta come me. Io sono stata più forte. Ho saputo nascondere il mio dolore. Sia quello del corpo sia quello dell’anima.

“Chiamate un’ambulanza presto!” 

In lontananza una sirena. Sento aprire gli sportelli posteriori, scendere un letto su delle ruote.  

È arrivato il momento di tornare a vivere.

mercoledì 12 febbraio 2014

Storia di violenza ed indifferenza


È vero. Non lo rinnego. Passeggiavo distratto quando ho visto tre ragazzi prendersela con un loro coetaneo, un loro pari.
Lo hanno insultato, poi strattonato. Erano alti, grandi e grossi. Nei loro occhi ho visto rancore e violenza, ma anche solitudine e sconforto. L’altro era come loro, vestito allo stesso modo, ma era da solo. Ha detto qualche parola a testa alta, ha tenuto botta e ha strattonato uno dei tre. Pare che il motivo del contendere fosse uno sgarbo al semaforo. Uno sguardo di troppo mentre diventava verde e l’acceleratore rombava furioso.
Così sono scesi e hanno deciso di regolare i conti.
Mentre camminavo tra i miei pensieri ho sentito insulti che non ho voglia di ripetere.
Poi uno di quei tre ha spinto più forte e quello da solo gli ha dato un pugno. L’altro ha contraccambiato immediatamente e quello è finito a terra. Sono iniziati i calci, mentre le parole continuavano a volare come in precedenza.
Hanno continuato tutti e tre ad accanirsi. Quello ha smesso di dire parolacce e ha provato a divincolarsi. Uno ha tirato fuori un coltello dalla tasca. Il tempo si è fermato per un attimo. Era lì, sopra quello a terra con il labbro spaccato. Era stato un crescendo che stava per avere un tremendo epilogo.
Ma io passeggiavo in quel momento. Così ho tirato dritto, ho superato la scena e non saprò mai come è andata a finire. Sono tornato nei miei pensieri, aggiungendo un ricordo ad altri migliaia.
Passeggiavo quando ho visto due auto ferme al semaforo con la musica ad alto volume. Erano lì, accanto a me. Poi, non so come, sono volate parole grosse, parole di odio e di sfida, di chi ha poco da perdere e poche certezze sul proprio futuro.
Hanno sgommato e lasciato le auto sul marciapiede.
Sono scesi e io passeggiavo proprio lì.
Erano tre contro uno, ma la spavalderia era la medesima. Stesse parole, stesse minacce, stesse offese. Si sono spintonati, uno contro l’altro, come alci che si prendono a cornate, ma senza un motivo che riuscissi a comprendere veramente.
Poi quello da solo ha dato un pugno sul volto ad uno dei tre. Un colpo secco.
Il suo amico però è corso subito in difesa. Pum! Un pugno diretto. Altri improperi e altre botte. Quello era solo e stava avendo la peggio. Ehi, fermi! Fermatevi subito.
Ho urlato contro di loro. Si sono fermati per fortuna. Quello da solo respirava affannato dopo aver incassato un paio di calci. Per forza, da solo contro tre.
Eppure, col fiato corto e il labbro spaccato mi ha guardato negli occhi e mi ha detto con una strafottenza che non avevo mai visto “che vuoi? Fatti i cazzi tuoi e vattene!”.
Avrei voluto essere pronto e rispondere con risolutezza, ma non capivo. Quel ragazzo stava per essere picchiato e aggrediva me che volevo salvarlo.
Insomma, basta, fatela finita. Ho aggiunto, camminando verso di loro, come se stavolta potessero finalmente comprendere il significato delle mie parole.
“Ehi, ma allora non ci senti”, ha detto uno dei tre. Si era dimenticato in un attimo del tipo che stava picchiando e venendo verso di me ha urlato “levati dal cazzo”.
Nel frattempo gli altri dietro si stavano guardando di nuovo con odio, pronti alla resa dei conti non appena avessero allontanato il loro piccolo problema che li infastidiva.
Un attimo dopo, il tipo dell’ultima minaccia mi ha spinto come fossi uno di loro. Avrei dovuto arrabbiarmi? Reagire? Picchiarlo? Invece mi sono limitato a dirgli che era da codardi picchiare uno in tre. Al che, senza che mi accorgersi di nulla, mi sono accorto che erano in quattro contro uno. Mi hanno colpito un paio di volte, ma mi sono difeso. Poi uno ha tirato fuori un coltello e senza remore me lo ha piantato in pancia. È uscito sangue come da una fontana. Sono scappati di corsa. Sono risaliti in macchina, si sono minacciati e dati appuntamento non so dove.
Io ero ancora a terra. Non in pericolo di vita, ma dannatamente dolorante. Avrei voluto gridare aiuto, ma era giorno! Cavolo, pieno giorno! Possibile che nessuno mi vedesse sporco di sangue e accasciato su un fianco?
In quel momento passava di lì un signore. Ho incrociato il suo sguardo e ho aperto gli occhi con la felice convinzione che ero a posto, salvo. Quello però ha spostato il volto e tirato dritto verso casa, perso nei suoi pensieri.

giovedì 6 febbraio 2014

Il progresso del nostro io




Ogni volta che mi trovo davanti al titolo bianco, dubbioso sull’argomento da trattare, mi perdo nei pensieri. Mi chiedo “di che posso parlare?”. E, immancabilmente, mi vengono in mente scene di vita vissuta.
Mi ricordo quella volta che...
Tante volte. Quando ho visto persone picchiarsi, quando il qualunquismo ha avuto la meglio, quando ho assistito a scene di omertà, delinquenza, ignoranza. O quando sono stato testimone di amicizia, generosità, altruismo ed onestà.
Poi ho letto dei libri che raccontavano storie di uomini, di errori, di eroi, di gente comune, di azioni meschine o meravigliose accadute nel passato o nella fantasia dell’autore. Il Magister Thomas Müntzer, il pagliaccio IT, Ivan Karamazov, Winston Smith, Christmas Luminita, il capitano Achab, Joseph Curwen, Padron 'Ntoni e Don Abbondio.
Sono i primi che mi sono venuti in mente. Persone reali, verosimili o immaginarie, che hanno un loro motivo di esistere all’interno delle pagine del loro autore. Azioni, imprese, fatti o semplici storie che, oltre ad intrattenere, insegnano.
Già, ci spiegano qualcosa. Ci toccano l’animo e ci fanno riflettere più o meno a lungo sulla natura dell’essere umano. Allora penso che quando ho letto Coelho, ho riflettuto su alcuni particolari aspetti. Allo stesso modo, quando ho visto un filmato sulla seconda guerra mondiale o sentito mia nonna raccontare la sua vita, ho interiorizzato concetti che hanno arricchito il mio io.
Allora dico “che cavolo”! Abbiamo alle spalle un sacco di anni di umanità, ora c’è internet, abbiamo libri, filmati, film, documentari e via dicendo. Allora, per forza, stiamo facendo passi da gigante in ogni aspetto del nostro esistere.

Vi racconto una storia. Una vicenda che gira intorno alla lite di alcuni fratelli, di donne amate, di cospirazioni, vendette, tradimenti ed infedeltà, rancori e lunghe battaglie. Direte voi: ho capito! È la trama di Beautiful. C’è Ridge, Brooke e tutti gli altri. Litigano, si amano, si lasciano, tramano alle spalle. È proprio lui.
Forse una commedia di Plauto. L’Iliade o un poema epico. Una storia di inizio ‘900.
In realtà stavo pensando al mito che riguarda alcune divinità egizie, Iside, Osiride e tutti gli altri. Le prima volta che ascoltai la storia di questi dei-animali pensai davvero a Beautiful. Forse per questo ce l’ho davanti agli occhi e la ricordo bene.
Sono trascorsi migliaia di anni eppure le storie sono sempre le stesse. Stessa morale, stessi problemi, stessi tradimenti e rancori.

Allora, quello che imparo io oggi sui nostri sentimenti ed emozioni, lo ha già imparato qualcun altro trenta, cento o mille anni fa? Magari non aveva il web, o il libro da Feltrinelli, ma aveva imparato la stessa cosa? Quindi, tra cento o cinquecento anni si imparerà ancora la stessa solfa, solo con personaggi diversi?
Allora dove sta il progresso dell’umano spirito? Davvero siamo poco più che istinto primordiale e sentimenti atavici e non abbiamo fatto progressi veri a livello di coscienza e sentimenti?
Credo di no.
Abbiamo la nano-robotica, ma siamo ancora vincolati da schemi che ci portiamo dentro. La nostra psicologia non progredisce velocemente e stiamo combattendo con le stesse paure, le stesse incomprensioni, gli stessi atteggiamenti e comportamenti di migliaia di anni fa.
E allora a cosa serve scervellarsi a scrivere o leggere i temi di cui parlavamo prima, se tanto non si va avanti? Perché non dedicarsi ad attività che non implicano il ragionamento? (che servono tanto quanto le altre, sia chiaro).
Eppure, dentro sentiamo questo bisogno di pensare che stiamo progredendo come essere viventi, nel nostro io, come nel campo delle tecnologie. Sentiamo anche il bisogno di impegnarci e di spendere le nostre energie in questa direzione.
Io stesso credo in tutto questo.

Storie di vita vissuta, dicevo all’inizio. Scene che ho visto con i miei occhi. Perché poi passeggi con calma in un parco pubblico e vedi un tuo pari puntare il dito verso una ragazza, sbilanciare il corpo verso di lei e dire «sei solo una puttana, io ti ammazzo di botte»
Allora capisci davvero come stanno le cose.