Miyajima

Miyajima

lunedì 19 maggio 2014

Il motorino ed il semaforo


Rosso. Motori che rombano in attesa che diventi verde, veicoli che si ammassano uno sull’altro. No, non sto descrivendo la partenza di una gara.
Solo una normale strada trafficata in una grande città alle prese con un semaforo, un microcosmo che descrive bene la realtà in cui viviamo e l’approccio delle persone nel contesto sociale.

Da un punto di vista del rispetto delle regole, al comparire della luce arancione prima, e rossa poi, l’utente della strada deve fermare il proprio veicolo prima della riga orizzontale che delimita la parte di carreggiata in cui fermarsi senza intralciare il traffico (incluso quello pedonale) e i veicoli che seguono devono incolonnarsi dietro al primo. Semplice.
Come si comporta chi guida uno scooter (oggi ne esistono una grande quantità e varietà di dimensioni, cilindrata e potenza)?
Il primo che arriva sorpassa la fila delle auto e, nella migliore delle ipotesi, ferma il proprio due ruote sulla striscia in questione.
Gli altri, dal secondo fino al quarto/quinto (a seconda della larghezza della strada), si affiancano al primo.
Il successivo supera la prima fila e si ferma in diagonale rispetto alla linea della strada.

E così ogni motociclista che giunge va a sovrapporsi ai primi. Negli orari di traffico intenso, quando al semaforo in questione giungono anche venti veicoli a due ruote, si formano strani ammassi metallici, in cui l’ultimo arrivato occupa una della posizioni più avanzate e con maggiore disordine, spesso andando ad occupare anche il senso di marcia opposto.
Un tetris caotico e rumoroso.
 
 
E quando finalmente scatta il fatidico verde, l’adrenalina che si percepiva nelle ruggenti (quanto inutili) accelerate nervose viene scaricata a terra.
I clacson impazzano nel decimo di secondo successivo al verde, gocce di sudore che volano nell’aria e mani sugli acceleratori.
Ognuno cerca il sorpasso nei confronti di quelli che sono avanti, tagliando la strada, strombazzando a tutto spiano e rivolgendo coloriti epiteti agli omologhi su due ruote. Tutti si sparpagliano sulla strada fino, ovviamente, al semaforo successivo.
È assolutamente interessante come tale comportamento ricalchi esattamente il modo di pensare di noi italiani in ogni contesto che si può riassumere in:

-          Anche se arrivo dopo gli altri posso superare/prevaricare.

-          Anche se non sono in una zona consentita, in fondo non creo grandi danni (se infrango qualche regola in fondo che male c’è).

-          Gli altri rompono solo le scatole, mi intralciano (quindi posso suonare il clacson/protestare).

-          Non rompete le scatole a me! State calmi brutti stolti! (sono gli altri a suonare il clacson verso di me).
 
Insomma, siamo sempre pronti ad invocare il rispetto da parte degli altri e quasi mai ad assumere lo stesso comportamento verso il prossimo.

In fondo vale sempre la regola aurea: ma se lo fanno tutti perché non posso farlo anch’io?

 
Ci vediamo al prossimo incrocio!

mercoledì 7 maggio 2014

Ritorno a casa


Prendo il primo volo utile per il mio ritorno a casa. L’ennesimo.

In questo caso lo sfondo non è quello di qualche cerimonia, non si tratta infatti di battesimi, matrimoni o altri sacramenti. Ho deciso semplicemente di venire a trovare i “Miei” visto che l’ultimo nostro incontro risale ormai a più di un anno fa e non ho potuto rimandare ancora.

Appena scendo dall’aereo riconosco subito la mia Terra, diversa da dove vivo ormai da anni. Quasi stento a immaginare che possa essere sempre la stessa. Bruciata ma al tempo stesso rigogliosa, immobile e inspiegabilmente viva. Esco dal mio gate e il passo cadenzato di mio fratello si staglia su uno sfondo di mare e colline raccolti insieme. Mi accompagna alla nostra auto e nel percorso verso casa non vola una parola. Un po’ la mia stanchezza un po’ la sua perenne difficoltà di comunicare. Sta di fatto che i nostri sguardi si incrociano solamente alla prima rotatoria, pronti a scrutare le altre sparute auto che provengono da sinistra.

Lungo il nostro percorso incontriamo solo il vuoto, passiamo per alcuni piccoli centri dell’entroterra e le serrande sono tutte abbassate.  Improvvisamente sbuca dall’asse mediano una processione preceduta dal Santo, portato a tracolla da due vecchi ragazzi, e subito incalzata dal prete con il suo aspersorio. Dietro, uno stuolo di ottuagenarie, probabilmente vedove. I loro passi sono lenti ma allineati. Ci avviciniamo con l’auto mentre di sottofondo il notiziario alla radio descrive la viabilità della costa occidentale.
Un chiaro: “Prega per noi” mi risveglia dall’ipnosi mentre mio  fratello riprende a pigiare sull'acceleratore.

Il vento riprende a soffiare forte sugli sportelli.

Arriviamo a casa con una puntualità che non si addice alla mia famiglia. Scarico i pochi bagagli che ho con me e abbraccio mia madre. Come ogni volta piovono lacrime che si acquietano immediatamente, non appena mio padre mi chiede informazioni sul viaggio. Entro in casa e continuo a non avere granché voglia di parlare. Normale mi dico.

Le ore trascorrono così, velocemente. Si avvicina la cena e stranamente si inizia a mangiare prima delle 20:00. Penso che qualcosa sia cambiato. Forse, le mie convinzioni di sempre non erano corrette. Forse.
Mio padre mi chiede informazioni sul lavoro, mia madre si informa su Chiara e del perché non sia scesa con me. Le solite domande a cui do le solite risposte. Finisco rapidamente la mia razione; la cucina di casa, come sempre, mi fa cadere nel più profondo dei vuoti pneumatici. È come un salto indietro nel tempo.
Riposo per qualche momento per poi trovare nuove energie. 
Ho deciso, scendo in piazza. Non ci sarà nessuno mi dico, ma poco mi importa. L’altra possibilità è rimanere a casa a parlare di matrimonio e posizione. Di analisi e controlli. 
Del nulla. 

Non ce la posso fare, saluto tutti e prendo la mia vespa con destinazione piazza Roma. Per le vie della Litoranea non incontro nessun auto, lungo i bordi della strada ampie macchie di sabbia cercano di impossessarsi del manto stradale. 
Le schivo con maniacale precisione. 
Intorno sento gli spruzzi delle onde non molto distanti mentre, da lontano, intravedo il centro della mia “Città”. Il centro dove ho trascorso i miei primi 18 anni di vita.



Parcheggio la vespa e immagino il mio ingresso al bar, davanti la vecchia sala giochi dove da qualche anno è stata aperta una slot room. Prefiguro i volti dei miei vecchi amici, superstiti. Vedo i loro sorrisi, avverto i loro abbracci. Immagino probabilmente un posto che non esiste.
Mi giro intorno e la piazza, come tutto il resto, è disperatamente vuota e silenziosa. Pochi volti in giro e nemmeno uno che riconosco familiare. Continuo a peregrinare per le vie del, seppure piccolo, centro.  Rivedo le mura dove mi poggiavo con tutta la schiena bagnata di sudore, incontro le finestre ai piani terra dove donne anziane che non esistono più mi offrivano bicchieri di acqua. All’angolo la cabina telefonica per cui si faceva la fila per telefonare, dove ascoltavo il rumore incessante dei gettoni fatti scivolare tra le dita di mia madre.

Sono appena le 22:00 e guardando attorno non vedo che una città vuota. Solo qualche adolescente alle porte dei bar. Più giù, nel fondo della sala adibita a casinò, incontro lo sguardo di un ragazzo della mia età che sembra avere 50 anni. È li fermo davanti al suo videopoker.

Mi guardo intorno per qualche minuto e decido di risalire in sella alla mia vespa. Corro sul lungomare che dorme, mi avvicino agli stabilimenti caduti in letargo.



Intorno a me poche luci. Anche quelle dei lampioni sembrano voler chiudere i loro occhi per prendere sonno. Scendo sulla spiaggia camminando quasi a rallentatore. 
Mentre affondo le mani nella sabbia ripenso al bracciolo del mio divano, all’odore delle stoviglie sporche in cucina, ad ogni banale oggetto di casa mia che sembra mancarmi come l’ossigeno.

Penso a Chiara.

Lontano una nave invia chiari segnali di luce verso il faro alle mie spalle, il tutto a tempo con le onde che lambiscono la riva.

Questa è la mia Terra questa notte. 

Sembra di stare in un film.