Miyajima

Miyajima

mercoledì 7 maggio 2014

Ritorno a casa


Prendo il primo volo utile per il mio ritorno a casa. L’ennesimo.

In questo caso lo sfondo non è quello di qualche cerimonia, non si tratta infatti di battesimi, matrimoni o altri sacramenti. Ho deciso semplicemente di venire a trovare i “Miei” visto che l’ultimo nostro incontro risale ormai a più di un anno fa e non ho potuto rimandare ancora.

Appena scendo dall’aereo riconosco subito la mia Terra, diversa da dove vivo ormai da anni. Quasi stento a immaginare che possa essere sempre la stessa. Bruciata ma al tempo stesso rigogliosa, immobile e inspiegabilmente viva. Esco dal mio gate e il passo cadenzato di mio fratello si staglia su uno sfondo di mare e colline raccolti insieme. Mi accompagna alla nostra auto e nel percorso verso casa non vola una parola. Un po’ la mia stanchezza un po’ la sua perenne difficoltà di comunicare. Sta di fatto che i nostri sguardi si incrociano solamente alla prima rotatoria, pronti a scrutare le altre sparute auto che provengono da sinistra.

Lungo il nostro percorso incontriamo solo il vuoto, passiamo per alcuni piccoli centri dell’entroterra e le serrande sono tutte abbassate.  Improvvisamente sbuca dall’asse mediano una processione preceduta dal Santo, portato a tracolla da due vecchi ragazzi, e subito incalzata dal prete con il suo aspersorio. Dietro, uno stuolo di ottuagenarie, probabilmente vedove. I loro passi sono lenti ma allineati. Ci avviciniamo con l’auto mentre di sottofondo il notiziario alla radio descrive la viabilità della costa occidentale.
Un chiaro: “Prega per noi” mi risveglia dall’ipnosi mentre mio  fratello riprende a pigiare sull'acceleratore.

Il vento riprende a soffiare forte sugli sportelli.

Arriviamo a casa con una puntualità che non si addice alla mia famiglia. Scarico i pochi bagagli che ho con me e abbraccio mia madre. Come ogni volta piovono lacrime che si acquietano immediatamente, non appena mio padre mi chiede informazioni sul viaggio. Entro in casa e continuo a non avere granché voglia di parlare. Normale mi dico.

Le ore trascorrono così, velocemente. Si avvicina la cena e stranamente si inizia a mangiare prima delle 20:00. Penso che qualcosa sia cambiato. Forse, le mie convinzioni di sempre non erano corrette. Forse.
Mio padre mi chiede informazioni sul lavoro, mia madre si informa su Chiara e del perché non sia scesa con me. Le solite domande a cui do le solite risposte. Finisco rapidamente la mia razione; la cucina di casa, come sempre, mi fa cadere nel più profondo dei vuoti pneumatici. È come un salto indietro nel tempo.
Riposo per qualche momento per poi trovare nuove energie. 
Ho deciso, scendo in piazza. Non ci sarà nessuno mi dico, ma poco mi importa. L’altra possibilità è rimanere a casa a parlare di matrimonio e posizione. Di analisi e controlli. 
Del nulla. 

Non ce la posso fare, saluto tutti e prendo la mia vespa con destinazione piazza Roma. Per le vie della Litoranea non incontro nessun auto, lungo i bordi della strada ampie macchie di sabbia cercano di impossessarsi del manto stradale. 
Le schivo con maniacale precisione. 
Intorno sento gli spruzzi delle onde non molto distanti mentre, da lontano, intravedo il centro della mia “Città”. Il centro dove ho trascorso i miei primi 18 anni di vita.



Parcheggio la vespa e immagino il mio ingresso al bar, davanti la vecchia sala giochi dove da qualche anno è stata aperta una slot room. Prefiguro i volti dei miei vecchi amici, superstiti. Vedo i loro sorrisi, avverto i loro abbracci. Immagino probabilmente un posto che non esiste.
Mi giro intorno e la piazza, come tutto il resto, è disperatamente vuota e silenziosa. Pochi volti in giro e nemmeno uno che riconosco familiare. Continuo a peregrinare per le vie del, seppure piccolo, centro.  Rivedo le mura dove mi poggiavo con tutta la schiena bagnata di sudore, incontro le finestre ai piani terra dove donne anziane che non esistono più mi offrivano bicchieri di acqua. All’angolo la cabina telefonica per cui si faceva la fila per telefonare, dove ascoltavo il rumore incessante dei gettoni fatti scivolare tra le dita di mia madre.

Sono appena le 22:00 e guardando attorno non vedo che una città vuota. Solo qualche adolescente alle porte dei bar. Più giù, nel fondo della sala adibita a casinò, incontro lo sguardo di un ragazzo della mia età che sembra avere 50 anni. È li fermo davanti al suo videopoker.

Mi guardo intorno per qualche minuto e decido di risalire in sella alla mia vespa. Corro sul lungomare che dorme, mi avvicino agli stabilimenti caduti in letargo.



Intorno a me poche luci. Anche quelle dei lampioni sembrano voler chiudere i loro occhi per prendere sonno. Scendo sulla spiaggia camminando quasi a rallentatore. 
Mentre affondo le mani nella sabbia ripenso al bracciolo del mio divano, all’odore delle stoviglie sporche in cucina, ad ogni banale oggetto di casa mia che sembra mancarmi come l’ossigeno.

Penso a Chiara.

Lontano una nave invia chiari segnali di luce verso il faro alle mie spalle, il tutto a tempo con le onde che lambiscono la riva.

Questa è la mia Terra questa notte. 

Sembra di stare in un film.


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